Sia “Lincoln” che “Django Unchained” riprendono alcuni motivi, stravolgendoli ciascuno a suo modo, di “Birth of a Nation” di D.W. Griffith, il grande classico del cinema muto (del 1915). “Birth of a Nation” è il film che, stravolgendo la storia, racconta la Guerra civile e il dopoguerra nel Sud dal punto di vista dei bianchi meridionali. Uno dei film “più odiosi”, scrisse a suo tempo il grande regista sovietico Sergej Ejzenstejn, che fa “apertamente l’apologia del razzismo, innalzando un monumento di celluloide al Ku Klux Klan e unendosi ai suoi attacchi contro i negri” – e che tuttavia ha insegnato a lui, agli americani, ai russi e al mondo l’arte e la tecnica narrativa del montaggio, l’arte e la tecnica cinematografica. La cosa peggiore di “Birth of a Nation”, ha scritto un critico di oggi, è quanto sia bello. Lo si può vedere nella sua interezza, tre ore, su Youtube. E sì, ne vale la pena.
Uno dei co-protagonisti del “Lincoln” di Spielberg è Thaddeus Stevens (interpretato da Tommy Lee Jones), deputato della Pennsylvania, abolizionista e sostenitore della eguaglianza fra bianchi e neri, spigoloso leader della fazione Radicale del partito repubblicano alla Camera – che alla fine mette la sordina ai suoi ideali più radicali per consentire l’approvazione del Tredicesimo emendamento e l’abolizione della schiavitù. Un uomo che, si mostra nel film, convive more uxorio con la sua governante afro-americana Lydia Hamilton Smith su un piano, sembra, di parità: a lei dona il documento originale del conteggio dei voti sull’emendamento stesso. (Questa relazione, per gli storici, non è dimostrata a sufficienza; voci del tempo, tuttavia, ne parlavano con insistenza – una relazione ventennale).
Thaddeus Stevens in una fotografia degli anni 1860s (al centro), e al cinema: in “Birth of a Nation” (a sinistra, con la governante di colore) e in “Lincoln”
In qualche modo, Spielberg rende giustizia all’immagine negativissima che di Stevens dà “Birth of a Nation”. Qui il personaggio si chiama Austin Stoneman, ma è riconoscibile senza alcun dubbio: di Stevens ha il ruolo politico e le fattezze (che sono anche, in maniera sorprendente, le fattezze di Tommy Lee Jones). Qui le sue virtù diventano vizi. Stoneman è uomo diabolico, non idealista ma fanatico, non giusto ma vendicativo, nemico del Sud e “amico dei negri”. Anzi “amante dei negri”. Non convive con la governante ma cede alla lussuria nei confronti di lei – che si chiama allusivamente Lydia Brown, e che, poco allusivamente, è arrogante, volgare, viscida. (Il mescolamento sessuale delle razze è l’incubo dei razzisti, anche se in verità con una gerarchia di genere rovesciata: uno dei temi di “Birth of a Nation” è la lussuria degli maschi neri liberati per le donne bianche).
In “Django Unchained” ritornano alcuni di questi temi (rimessi in piedi, riportati alla storia: il vero mescolamento sessuale delle razze a cui si allude è quello imposto alle schiave dalla lussuria dei padroni). Ma la citazione griffithiana più evidente è nella scena dell’attacco dei “Regulators” a cavallo, addobbati in maniera anacronistica da incappucciati del Ku Klux Klan (che in effetti nacque solo dopo la Guerra civile), al carro dei due protagonisti. In “Birth of a Nation” i cavalieri del KKK, che corrono a salvare i bianchi assediati dagli ex schiavi assetati di vendetta, sono gli eroi di una delle scene più celebri – la madre di tutte le scene di “arrivano i nostri”, il capolavoro filmico di montaggio parallelo di cui parla Ejzenstejn. In “Django Unchained” tutto è volto in parodia, i cappucci sono un comico impaccio, e la cavalcata si conclude in disastro. Ha commentato Tarantino, con la consueta finesse: “it was my ‘fuck you’ to D.W. Griffith”.
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