Ecco finalmente una nuova costituzione che inventa qualcosa di nuovo e migliore. In nome, scrive il Financial Times (qui) che per primo mi ha avvisato della novità, di una “far more participative form of politics”. In nome, afferma la costituzione stessa (qui) che sono corso a leggermi, di una nuova epoca di “deliberative open democracy”. Splendido, no? E chi dovrebbe goderne, di queste belle cose? I marziani, perché questa è “The Constitution of Mars”. Proposta “senza influenze e senza interferenze da parte della Terra”, o così almeno si dice nel preambolo. Naturalmente è stata scritta da altri, da un gruppo di studenti americani che si sono messi nei panni degli extra-terrestri. E il popolo marziano neanche è stato consultato. Cominciamo bene quanto a partecipazione e democrazia aperta… Gli stessi autori iniziano il testo costituzionale con un modesto ma autoritario “We, the drafters”. A differenza di altri padri costituenti non hanno la chutzpah di dirsi “We, the people”.
Ora, non paia solo un paradosso, o una spiritosaggine, quello che sto scrivendo. Mi sembra che la costituzione di Marte scritta per esercizio seminariale dagli allievi della professoressa Hélène Landemore, che insegna teoria politica a Yale (con un curriculum stellare sulla direttissima Sorbona-SciencesPo-ENS-Harvard), abbia un difetto di origine. Proprio la premessa dell’impresa, l’invito a preparare una carta costituzionale per un luogo di fantasia, privo di storia, dove la vita cominci da zero, è anche il suo vizio. Quando gli studenti annunciano, in una nota al documento, “Marte è il nuovo mondo e noi ci liberiamo dalle costrizioni provenienti dalla Terra per lanciare una nuova era”, fanno il verso alla nascita della costituzione statunitense. Ma dimenticano di ricordare quanti vincoli legassero quella nuova carta al Vecchio mondo, vincoli di comune discendenza teorica e politica e di opposizione e inimicizia repubblicana. Il nuovo mondo non era una terra vergine (e neanche lo è Marte, questo Marte).
Il fatto è, credo, che tutte le costituzioni realmente esistenti, anche quando sono rivoluzionarie, o prodotte da rivoluzioni, nascono dentro, in continuità e contro una storia che si dipana e da cui sono plasmate. Sviluppano esperienze e istituzioni preesistenti e, allo stesso tempo, ne contrastano e negano altre. Sono sempre post-qualcosa e anti-qualcosa, che lo esplicitino oppure no. E questo è vero anche per le costituzioni di fantasia, viste le costrizioni storiche e culturali della fantasia, e visto che trattasi comunque di prove fantasiose di reali desideri di cambiamento.
E infatti. La parte della costituzione di Marte che è più piana, che funziona meglio, è quella sui diritti. Perché è chiaramente concepita in continuità con i principi del Bill of Rights americano e della Universal Declaration of Human Rights. Con sviluppi e integrazioni, con l’aggiunta di altri nuovi diritti di cui si discute seriamente in società, che stanno sulle bandiere di importanti movimenti, che già sono contenuti in proposte di legge o leggi, che magari già sono consolidati in autorevoli interpretazioni giudiziarie di quei principi – i diritti digitali alla privacy e alla protezione dei dati personali, i diritti sociali e degli immigrati, i diritti non-umani, animali e della natura. Qui il testo inventato è parte di un processo storico, lo riassume e istituzionalizza, sia pure con qualche salto di immaginazione radicale. (Naturalmente si tratta del nostro processo storico, non sappiamo che cosa ne pensino i marziani, ma che importa? Come tutti i nativi a cui si fa del bene, non possono che esserci riconoscenti – or else.)
E’ la parte sulla macchina della democrazia aperta che mi sembra artificiale, statica, priva di gambe storiche su cui camminare e aprirsi al futuro. E’ la parte anti che non funziona. Al posto di, e quindi contro un parlamento rappresentativo dominato, dice Landemore, da una oligarchia di eletti, con il popolo che è chiamato non a esercitare il potere ma solo a dargli consenso, ci sono altre cose. Ci sono sei “single-issue mini-publics”, ciascuno competente a legiferare su una certa area di affari (politica estera e interstellare, politiche sociali, ambiente, economia, diritti civili, supervisione governativa). Ogni mini-pubblico è composto di 250 membri estratti a sorte con un metodo di stratified random sampling che rispecchi le diversità della popolazione (secondo criteri che sono quelli che pensate anche voi, più o meno); i membri restano in carica per due anni. Cinquanta di loro per ciascun mini-pubblico si uniscono a formare una camera centrale superiore (di 300 membri) che approva il bilancio e ha potere di veto sulla legislazione dei mini-pubblici inferiori. [*]
Ora, io so poco del lavoro teorico che sta dietro questa impostazione (Landemore ne scrive nel libro Open Democracy: Reinventing Popular Rule for the Twenty-First Century, e ne discute con Ezra Klein sul New York Times, qui). Non ho niente da dire sulla questione centrale, e cioè se assemblee deliberative di cittadini scelti in questo modo (che lo vogliano o no: una volta scelti, per rinunciare devono avere ottimi motivi – or else) alla fine facciano meglio gli interessi della comunità di quanto faccia un parlamento di rappresentanti eletti. O anche se alla fine siano nel complesso più competenti di una congrega di politici di professione, grazie alla somma casuale delle competenze dei cittadini casualmente sorteggiati. Quello che mi sembra di sapere è che non vedo, qui da noi, movimenti, istituzioni informali o volontarie, gruppi organizzati che esercitino significative funzioni di questo tipo e che chiedano di formalizzarle in nuove istituzioni da sostituire a quelle esistenti. Che si battano per farlo, che contrastino il vecchio ordine, che magari cerchino di scalzarlo, lo lavorino dall’interno o dall’esterno.
Se queste cose mancano, qualunque nuova costruzione costituzionale è solo una carta octroyée, come si diceva nell’Ottocento, o un esercizio di ingegneria elitaria (o colonialista, come lo vedrebbero da Marte).
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[*] Ci sono tante altre disposizioni, come si conviene a un disegno costituzionale compiuto. C’è la possibilità di creare e aggiungere altri “ad-hoc mini-publics” (specializzati), c’è il referendum e l’iniziativa popolare, c’è un sistema giudiziario a più livelli (con term limits), non si parla di un sistema di governo federale (l’aggettivo federal è usato distrattamente), c’è infine un intricatissimo potere esecutivo di cui parleremo un’altra volta…
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Categorie:costituzione
Tag:Hélène Landemore, The Constitution of Mars, Yale
Devono avere letto la trilogia di Marte di Kim Stanley Robinson. Sono d’accordo con loro, bisogna sognare in grande!
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“Make no little plans”
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