Short Cuts America: il blog di Arnaldo Testi

Politica e storia degli Stati Uniti

Un paio di cose su Kamala & Joe & Barack

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Con Joe Biden, Kamala Harris condivide un bagaglio politico controverso in faccende di law enforcement e giustizia penale, un bagaglio che rende entrambi sospetti agli occhi della sinistra sandersiana del partito (per non dire della sinistra radicale).

Biden in quanto autore e sponsor del Crime Bill del 1994 – quello a cui si imputano il tasso altissimo di carcerazione nel paese e la mano particolarmente pesante (razzista) nei confronti degli afro-americani e delle minoranze in genere. Anche se la storia di quelle legge è un po’ più complicata di così. Per esempio fu sostenuta dai sindaci neri di grandi città, preoccupati per la criminalità nei quartieri più poveri, e fu votata da due terzi del Congressional Black Caucus alla Camera. Fra l’altro votò a favore anche l’allora deputato indipendente del Vermont, lui medesimo, Bernie Sanders.

Harris per la sua carriera di prosecutor californiana – prima come District Attorney di San Francisco e poi Attorney General dello stato. E si discute della sua performance professionale e politica: con quanto zelo abbia applicato le norme più (spesso insensatamente) punitive degli statuti criminali, soprattutto nei confronti della piccola criminalità; quanto sia stata sincera la sua opposizione alla pena di morte, il suo impegno a non chiederla mai; quanto siano stati efficaci i suoi tentativi di riforma, per esempio nel campo del recupero dei recidivi.

Entrambi hanno cercato di spiegare e contestualizzare la loro storia, di prenderne un po’ le distanze, parlando della sopraggiunta necessità di riforme del sistema penale nel clima infuocato di questi ultimi tempi. E chissà che la fama di essere o essere stati tough on crime non li aiuti a essere dei riformatori efficaci, come promesso da entrambi, senza apparire soft on crime agli occhi dell’opinione più moderata (nel clima infuocato di questi ultimi tempi).

Con Barack Obama, Kamala Harris condivide una life story che è un messaggio politico e di stile comunicativo. Un messaggio che è in consonanza con una certa idea dell’America: multiculturale, ibrida, plurale, cosmopolita. Ma che anche può mettere a disagio l’America più tradizionalista o quella più identitaria.

Entrambi sono figli di immigrati di colore con complicate radici nelle Americhe e oltremare. Nato nelle Hawaii, nel cuore del Pacifico, da una studentessa bianca giramondo e da uno studente del Kenya, Obama ha parenti di origine europea, africana, afro-americana (tramite la moglie Michelle) nonché, tramite il secondo matrimonio della madre, indonesiana e cinese. Nata in California, Harris è di madre tamil (da Chennai, in India) e di padre afro-giamaicano; i genitori si sono incontrati da studenti a Berkeley e poi sono rimasti nel paese come accademici, una scienziata e un economista a Stanford. Immigrati di lusso, dunque.

Radici e identità troppo complicate per essere davvero “americane”? Per chi, per esempio, crede tutt’ora che Obama non possa che essere nato all’estero? Ma anche per chi si chiede se Kamala, che tutti considerano una Black politician, sottolineando solo una parte del suo heritage, sia Black enough? Cioè, se sia davvero partecipe dell’esperienza storica della comunità afro-americana, dei suoi valori, delle sue tradizioni e rabbie e frustrazioni, proveniendo da altri mondi con altre storie? E con una educazione in gran parte bianca, tranne che per la scelta di frequentare Howard University. Il colore non basta, come si diceva di Barack.

Tutto ciò può essere disorientante, ma anche servire a qualcosa. Mi sembra che, proprio come si diceva di Obama, anche Harris, forse per le medesime ragioni biografiche, con tutta la sua combattività, non esprima il risentimento verbale e gestuale che molti bianchi americani associano alla politica afro-americana. E che un po’ li rende nervosi.

Categorie:campagna elettorale, sistema giudiziario

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