In una situazione d’emergenza come quella creata dalla pandemia, il voto per posta sembra una soluzione ragionevole per evitare pericolosi affollamenti di corpi ai seggi elettorali. Nell’ultimo numero della New York Review of Books, David Cole (che è consigliere legale della ACLU e professore di diritto a Georgetown University) invoca la necessità di una “democrazia postale”: per ragioni eminentemente pratiche e contingenti, direi, come molti fanno in queste settimane. E tuttavia la democrazia postale è già qui con noi come dato sistemico, non ha aspettato il virus. E’ parte di un trend di lungo periodo che dura da parecchi cicli elettorali e che, fondendosi con altre pratiche, tipo il voto anticipato, ha fatto sì che alle presidenziali del 2016 ben il 40% degli elettori abbia votato da remoto e prima del giorno delle elezioni. E quindi vale la pena suggerirne alcune implicazioni – sistemiche, appunto.
Concludevo un post precedente ricordando come, con questi cambiamenti, per molti americani il giorno ufficiale delle elezioni sia diventato più che altro una deadline (in molti stati lo è proprio per la maggioranza degli elettori, in cinque stati almeno lo è per tutti). Entro questa data va consegnata la scheda, se si vuole che conti e sia contata. Ma la consegna può avvenire anche prima, una settimana o due prima, anche un mese prima, dipende dalle leggi statali, e può essere spedita per posta. Gli elettori possono così preparare la scheda quando vogliono, mentre la campagna elettorale è ancora in corso. La preparano dove vogliono, da soli o in compagnia di famigliari, amici, compagni di lavoro, compagni di fede politica o religiosa. E infine la depositano presso gli uffici municipali o di contea, presso speciali centri di raccolta, o in una buca delle lettere. Che nell’occasione sostituisce il o prende le sembianze della cara vecchia ballot box.
Insomma, concludevo, non c’è più Election Day, ci sono piuttosto Election Week o Election Month. E ciò, credo, può avere conseguenze non banali, su cui vale la pena riflettere ulteriormente. Su alcune di esse almeno, per quello che posso saperne io sulla base di antiche impressioni (qui) che mi piacerebbe approfondire.
Dunque. Dal punto di vista simbolico, con il voto anticipato e diluito nel tempo scompare il giorno cerimoniale in cui i cittadini attivi si riuniscono solennemente, ordinatamente e simultaneamente in una metaforica assemblea per formare il corpo politico della repubblica. E per mettere in scena il privilegio di esercitare la sovranità. Con l’invio della scheda elettorale per posta, dopo che sia stata votata negli spazi privati di ciascuno, perde di importanza anche il seggio elettorale, il “tempio” della democrazia americana, come diceva un secolo fa il giudice David Brewer. Perde d’importanza lo spazio pubblico designato dall’autorità pubblica dove i cittadini esercitano il loro diritto in segreto, protetti dallo stato, lontano da occhi o pressioni indiscrete sia verticali (di potere) che orizzontali (di pari).
Si sta così pendendo, dicono alcuni, il senso delle elezioni come un’impresa civica collettiva, vissuta e condivisa in contatto fisico diretto con vicini, conoscenti, estranei di status sociali e opinioni politiche diverse, tutti insieme in fila e in attesa di fronte a un seggio. Dove, alla fine della fila, si incontra il sigillo ufficiale di funzionari pubblici in carne e ossa, o meglio ancora di cittadini funzionari pubblici per un giorno. Certo, dicono altri con un sospiro di sollievo, così si elimina anche la perdita di tempo in noiose lunghe attese accanto a perfetti sconosciuti. E più seriamente: i tempi più dilatati a disposizione possono favorire una maggiore partecipazione, un più agile superamento degli ostacoli burocratici all’esercizio del diritto di voto, che in molti stati possono essere fastidiosi quando non vessatori (con tentativi di voter suppression).
Da un punto di vista più immediato, possono esserci conseguenze pratiche per elettori, partiti e candidati. Se nelle settimane finali di campagna elettorale decine di milioni di cittadini hanno già votato, contano assai meno gli sviluppi dell’ultimo momento, le October surprises che possono alterare le percezioni politiche e quindi le espressioni di voto degli elettori indecisi. Ma non, com’è ovvio, quelle di chi ha già votato. Succede così che una parte della giuria emetta il suo verdetto prima che il processo si sia concluso; che rimonte o cadute tardive dei candidati siano più difficili perché avvengono a giochi fatti per metà. D’altra parte, a questo punto partiti e candidati hanno a disposizione un gran quantità di voti espressi. Non ne conoscono la distribuzione partisan ma possono cercare di indovinarla con gli exit polls e le analisi demografiche. Sulla base dei dati raccolti possono aggiustare le ultime strategie di mobilitazione.
Secondo alcuni osservatori, questi cambiamenti non sono una bella cosa perché distorcono il regolare processo elettorale. Se poi c’è il sospetto che aiutino un partito a danno dell’altro, allora la controversia diventa inevitabile anche se un po’ inutile, visto che il fenomeno sembra inarrestabile. In genere i democratici sono a favore. Pensano di poter fare un raccolto più abbondante nelle minorities o fra quei lavoratori che hanno difficoltà ad andare di persona alle urne in un giorno di lavoro com’è Election Day, un martedì qualunque. I repubblicani, al contrario, ritengono di esserne penalizzati e fanno resistenza. Probabilmente sbagliano, perché il voto per posta può facilitare la partecipazione dell’elettorato rurale (più isolato) e anziano (più affaticato) che tendenzialmente vota per loro. E comunque, ora come ora, nell’emergenza, anche molti loro governatori cercano di estenderne l’uso.
Persino il presidente Trump, a cui la cosa piace poco o niente, quando tocca a lui vota per posta.
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