E allora, se non si può spostare la data delle elezioni, che cosa si può fare per votare in sicurezza nel bel mezzo o magari, chissà, ai margini comunque pericolosi di un pandemia? Il giorno delle elezioni, per come lo conosciamo secondo tradizione, sarebbe un giorno di assembramenti di corpi, di contatti fisici, una festa civica collettiva – che diventerebbe anche una festa per le peggiori intenzioni del coronavirus (sembra che lo siano state, per esempio, le primarie tenute in Wisconsin lo scorso aprile, contro il buon giudizio di molti). Bisognerebbe dunque regolare il traffico, far mantenere le distanze, garantire condizioni igieniche spick-and-span, con il risultato di allungare le file e i tempi ai seggi, di scoraggiare molti dall’esercitare il loro diritto…
Oppure?
Oppure si può votare per posta.
La California ha appena deciso di spedire a tutti gli elettori registrati delle mail-in ballots, schede elettorali che essi possono votare e restituire per posta, se lo desiderano. New York, Michigan, Iowa, Georgia e altri stati stanno facendo qualcosa di simile ma un po’ più complicato. Per ragioni (mi sembra di capire) legali, spediscono agli elettori registrati non le mail-in ballots ma i moduli necessari per richiederle agli uffici competenti, sempre che lo desiderino. Lo scopo di tutti è evitare l’affollamento alle urne, non mettere a rischio la salute degli elettori, facilitarne la partecipazione contro l’assenteismo per paura. Alcuni di questi stati hanno governatori democratici, altri repubblicani, e quindi la faccenda sembrerebbe pacifica, non-partisan, pacificamente non-partisan.
Ma niente è non-partisan negli Stati Uniti di questi tempi.
C’è un movimento d’opinione nazionale a favore del mail voting che è assecondato soprattutto da legislatori e leader democratici (Hillary Clinton e Amy Klobuchar e Nancy Pelosi) che ovviamente ritengono che la massima partecipazione possibile sia un bene per la democrazia ma anche per il loro partito. E c’è una contro-campagna repubblicana, guidata dal presidente Trump in persona, che parla del mail voting come di una tattica faziosa che mette a repentaglio l’onestà del voto: perché i democratici e i loro elettori sono truffaldini. Non ci sono prove di truffe, di frodi diffuse. Ma nei suoi rumorosi tweet Trump minaccia rappresaglie federali (probabilmente inesistenti) contro alcuni governatori. E i tentativi della Camera dei rappresentanti di finanziare il passaggio al voto per posta sono destinati a morire in Senato.
Nella pratica della vita pubblica, comunque, la questione della partisanship è pura chiacchiera, propaganda da campagna elettorale.
In effetti già moltissimi elettori americani, virus o non virus, ben prima di questo virus, hanno imparato a votare in modo alternativo alla presenza fisica nei seggi il giorno delle elezioni. Secondo la U.S. Election Assistance Commission, nelle ultime presidenziali del 2016 sono stati più di 57 milioni, il 40,8% degli elettori effettivi, i due quinti del totale. In almeno 16 stati concentrati nel Sud, nel Sudovest e nella West Coast, California compresa, ciò ha riguardato più del 50% dei voti espressi. Oggi come oggi, in cinque stati (Oregon, Washington e Colorado, Hawaii e Utah) il voto per posta è al 100%, è l’unico possibile, è obbligatorio. La California sembra volersi muovere in questa stessa direzione. In una trentina di altri stati è consentito con criteri molti generosi.
Le maglie si sono allargate rapidamente negli ultimi decenni (nel 1992 era praticato solo dal 7% degli elettori) grazie al moltiplicarsi delle tipologie alternative e alla scomparsa di limiti, vincoli, controlli. C’è stata l’adozione legale e il successo popolare del voto anticipato (early voting) e del voto per posta generico (mail-in voting). E soprattutto c’è stata l’espansione del voto per posta in assenza (absentee voting), che all’inizio richiedeva ragioni valide e dimostrabili, tipo trovarsi all’estero, ma poi ha progressivamente abbassato le pretese. Finché non ha più avuto e non ha bisogno di giustificazioni formali, di scuse (“no-excuse” permanent absentee voting).
Tutto ciò fa sì che nella maggioranza degli stati il giorno ufficiale delle elezioni sia già, per quasi la metà dell’elettorato, più che altro una deadline. Entro quella data va consegnata la scheda, se si vuole che conti e sia contata. Ma la consegna può avvenire anche prima, una settimana o due prima, anche un mese prima, dipende dalle leggi statali, e può essere fatta da remoto. Gli elettori possono così preparare la scheda quando vogliono, mentre la campagna elettorale è ancora in corso. La preparano dove vogliono, da soli o in compagnia di famigliari, amici, compagni di lavoro, compagni di fede politica o religiosa. E infine la depositano presso gli uffici municipali o di contea, presso speciali centri di raccolta, o in una buca delle lettere. Che nell’occasione sostituisce il o prende le sembianze della cara vecchia ballot box.
Insomma, non c’è più Election Day, ci sono piuttosto Election Week o Election Month. E ciò ha importanti implicazioni sia simboliche che pratico-politiche.Che non discuto qui. Ma che non sono quelle agitate da Trump.
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Tag:absentee voting, early voting, mail voting, voto per posta