Per avere un Hamilton moment ci vuole un tipo come Hamilton. Ci vogliono dirigenti tipo Alexander Hamilton. E qui, sia chiaro, si parla di storia americana. Cioè di come gli Stati Uniti delle origini comincino a trasformarsi da una serie di stati indipendenti legati da un debole patto confederale (frutto e retaggio di una guerra) in una federazione con un governo centrale vigoroso, qualcosa che assomigli a un governo nazionale. Perché lo diventi davvero, un governo nazionale, ci vuole il suo tempo. Ci vogliono molti decenni, un secolo di pene e conflitti e una guerra sanguinosa ma, come ognun sa, i tempi storici nel Nuovo mondo sono glaciali, l’America è lenta.
Alexander Hamilton è comunque lì dove queste cose nuove nascono, e le fa nascere.
Ci vuole un tipo come Hamilton per vicende ed esperienze politiche personali. Uno nato fuori dalla mischia, senza un legame particolare con alcuno dei soggetti statali in gioco, che matura fedeltà al risultato unitario del processo di cambiamento. Un figlio della diaspora imperiale britannica (nato nelle West Indies) che arriva nelle inquiete colonie nordamericane quando ha già sedici anni, nel 1773. Che partecipa alla guerra d’indipendenza non nelle milizie o nelle assemblee statali ma nell’esercito continentale del generale Washington, di cui è assistente e protegé. E che quando, con Washington presidente, diventa Segretario al tesoro nel governo nato dalla nuova Costituzione (quella disegnata nel 1787), è estraneo al localismo di gran parte del ceto politico. E’ estraneo anche al sospetto che questo ceto, nella lunga frizione con i governatori imperiali britannici, ha sviluppato nei confronti del potere. Hamilton è insofferente delle istanze di autonomia locale, non ha alcuna simpatia per i diritti degli stati, non ha remore a usare il potere centrale.
Ci vuole un tipo come Hamilton per formazione politica e intellettuale. Che non ha grilli utopici per la testa, che non pensa alla costellazione statuale che sta sorgendo come a una polity di cittadini virtuosi di virtù civiche repubblicane, naturalmente pacifici e pensosi del bene pubblico. Forse a causa della sua vita difficile, di figlio illegittimo vissuto in povertà che si è fatto strada per forza di carattere, brillantezza d’ingegno e pura nuda ambizione, pensa a individui motivati soprattutto dal self-interest, in particolare dall’interesse economico. Come scrive in uno dei suoi contributi al Federalista, in difesa della Costituzione, “gli uomini sono ambiziosi, vendicativi, e rapaci”. E delle repubbliche scrive: che siano pacifiche per natura è un sogno pericoloso, fanno la guerra quanto le monarchie; e finiranno col farsi la guerra anche le nuove repubbliche nordamericane, se non si uniscono fra loro. Mica viviamo nell’età dell’oro, in America. L’unica soluzione è una forte unione, con un forte governo centrale.
Da Segretario al tesoro Hamilton è il membro più potente del gabinetto, quasi un primo ministro di tipo britannico. E grazie a questo, e al sostegno di gente come lui, e del suo stesso presidente Washington, inaugura la carica con un paio di operazioni cruciali, una di governo e l’altra di interpretazione dei poteri costituzionali del governo. Operazioni che (fra il 1789 e il 1791) definiscono appunto il suo “momento”.
Hamilton consolida in un unico debito pubblico federale i debiti accumulati, per finanziare la guerra, sia dal governo degli Stati Uniti nella sua incarnazione precedente, ai tempi della Confederazione, sia dai singoli stati. Le vecchie e disparate obbligazioni in mano ai creditori sono sostituite da nuove obbligazioni federali, più tardi garantite da una banca simil-centrale, la Bank of the United States; gli interessi sono finanziati da tariffe doganali, da alcune accise. All’inizio a piantar grane, a fare resistenza, sono gli stati più virtuosi (e ricchi, Virginia in testa) che hanno già saldato i loro debiti e che temono, con il consolidamento, di dover pagare i conti degli stati meno virtuosi e morosi (Massachusetts in testa). La faccenda, spinosissima, è sistemata con dei compromessi che non distorcono il senso del progetto. Che mira a dare credibilità internazionale al nuovo soggetto statuale e, nello stesso tempo, a trasformare i creditori, molti di loro grandi mercanti e investitori, in stakeholders interessati alla sua sopravvivenza come soggetto unitario.
Un progetto di unificazione basato sul self-interest economico, appunto.
Ma può davvero il governo federale fare operazioni così centraliste e centralizzanti? In particolare la Bank of the United States, è una iniziativa costituzionalmente corretta? La Costituzione tace in proposito e quindi non la permette, dicono gli oppositori guidati dal compagno di battaglia dei tempi del Federalista, James Madison, e dal Segretario di stato Thomas Jefferson; per giunta l’assemblea costituente (a Filadelfia) ha discusso una clausola che avrebbe potuto autorizzarla ma alla fine l’ha bocciata. Certo che la permette, risponde Hamilton, si tratta di interpretarla, la Costituzione, in particolare di interpretare i suoi silenzi. Una volta che lo scopo per cui si vuole agire è ritenuto costituzionale, per ottenerlo il Congresso può scegliere ogni mezzo che non sia vietato. Insomma i madisoniani-jeffersoniani dicono: si può fare solo ciò che il testo costituzionale consente esplicitamente. Gli hamiltoniani dicono: si può fare tutto ciò che esplicitamente non proibisce. E vincono la battaglia, almeno questa battaglia, almeno per il momento.
Con la teoria degli implied powers, dei poteri impliciti, Hamilton espande i poteri del governo centrale teoricamente all’infinito.
(Nella lotta di fazione e di partito che si accende, volano parole grosse, insulti, insinuazioni, teorie cospirative. Hamilton è accusato di essere filo-britannico, di voler restaurare la monarchia, di essere al servizio di una potenza straniera o degli interessi delle grandi città mercantili o del grande capitale, di tradimento, eccetera eccetera. Allora gli scontri politici erano davvero senza esclusione di colpi. Ma questa è un’altra storia.)
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