Puoi cominciare una piccola ricerca per un piccolo post avendo in mente un percorso e anche una conclusione (sono un paio di paginette di scrittura, dopo tutto, mica una cosa complicata), e invece ritrovarti a seguire direzioni impreviste, e magari a giungere a conclusioni che non solo non immaginavi ma anche che non desideri particolarmente?
L’inizio è questo, il tema è questo: le centinaia di raduni e comizi che il presidente Trump ha tenuto dacché si è insediato alla Casa Bianca sono un fatto che ti sembra straordinario. Un fatto poco ortodosso persino nel clima di campagna elettorale permamente che, nell’ultimo mezzo secolo, si è gradualmente introdotto nella politica presidenziale americana.
Svolgimento. O meglio, con il senno di poi, inizio di svolgimento.
Trump ha rotto la tradizione secondo cui, almeno nella parte iniziale del loro mandato, i presidenti dovessero far finta di essere presidenti di tutti gli americani. Le loro apparizioni pubbliche, anche quando miravano a promuovere la loro agenda di governo, erano eventi istituzionali organizzati dalla Casa bianca, aperti a tutti, con dei vincoli di sobrietà nella retorica consentita. La partecipazione a eventi di partito era saltuaria, la principale eccezione essendo le elezioni di medio termine, in cui si spendevano per qualche candidato amico. Per spendersi a favore di se stessi, per entrare formalmente in lizza per la rielezione, per trasformarsi da leader della nazione in leader di partito, in uomini di parte, era opportuno attendere. Si diceva ai tempi di Truman, per citare un’altra era geologica: attendere fino alla convenzione nazionale estiva del partito, prima è sconveniente, non sta bene. Con l’avvento delle primarie i tempi della partisan politics elettorale dei presidenti si sono allungati, anticipati fino all’anno precedente le nuove elezioni quadriennali, il terzo anno di presidenza.
Anticipati sì, ma non a subito dopo la cerimonia di insediamento, perdiana.
Invece Trump ha rotto la tradizione e l’ha fatto subito. Fin dalle prime settimane alla Casa bianca ha politicizzato le sue uscite, anche le più istituzionali e non-politiche (tipo, famosamente, un incontro di Boy Scout); ne ha fatto delle repliche chiassose dei suoi comizi elettorali, attaccando i Democratici e i media, sbeffeggiando chiunque fosse il nemico du jour. Ma c’è di più. Fin dal primo giorno in carica, nel gennaio 2017, ha formato il comitato per la sua rielezione nel 2020, si è messo a raccogliere fondi, e ha iniziato la straordinaria serie di rally personali che continua ancora oggi. Che si tratti di rally personali, preparati da club locali, programmati e finanziati dalla macchina per la sua rielezione, una macchina professionale, high-tech e ricca, è una caratteristica cruciale. Sono infatti eventi privati, a cui sono ammessi solo i sostenitori, eventuali contestatori sono cacciati con le buone o le cattive. Sono raduni che dicono poco di policies specifiche e molto di identità collettive, con i sentimenti infiammati e nudi di certi meeting religiosi evangelici. In cui il presidente gode dell’acclamazione della folla e nella folla. In cui parla non al popolo americano ma a una parte, la sua parte, la sua fazione, la sua America. In cui fa comunione con i suoi fan, li compatta e in qualche modo li organizza.
Ecco allora le prime conclusioni, che sono in effetti quelle da cui sei partito.
Questa storia solleva un interrogativo importante. E cioè se la campagna elettorale permamente non si possa trasformare in mobilitazione permanente di massa a favore del presidente in carica, una mobilitazione popolare di parte, di fazione – stimolata e organizzata dal potere esecutivo stesso a sua difesa e come suo strumento. Qualcosa che finora i presidenti americani non hanno pensato di fare, o sono stati riluttanti a fare, o, se così consigliati, si sono rifiutati di fare (come Obama nel 2009). Forse perché, sospetto, è qualcosa che evoca i regimi autoritari, regimi spesso etichettati come populisti illiberali.
Ma tutto questo riguarda solo The Donald? Qui c’è la coda imprevista della tua ricerca, dove vai a sbattere contro la sinistra americana e il caro Bernie.
Indagando sulla decisione di Obama, nel 2009, di sciogliere di fatto l’organizzazione di base che ne aveva sostenuto con successo la campagna elettorale (Obama for America), ritrovi alcune critiche di allora, che ricordavi. Ma anche una loro ripresa recente, per bocca di Bernie Sanders. In una intervista dell’ottobre scorso il senatore del Vermont sostiene che si trattò allora di un errore, e che, se eletto presidente, lui non lo ripeterebbe. Perché, dice, c’è bisogno di un movimento grassroots di milioni di persone che faccia pressione sul corporate establishment e sul Congresso per realizzare i cambiamenti di cui il paese ha bisogno. In una successiva lunga intervista al New York Times cerca più o meno di spiegare che cosa farebbe. Appena insediato, dice, volerà molto in giro per il paese, non starà chiuso nello Studio Ovale a negoziare con questo e con quello. Piuttosto cercherà di chiamare a raccolta il popolo americano intorno alla sua agenda. Questo, dice, fa di lui un candidato diverso dagli altri. E di fronte all’inevitabile domanda – “dopo quello che hanno attraversato negli ultimi tre anni, è possibile che a sentir parlare di un presidente che vola di qua e di là a tener comizi, ai Democratici venga la pelle d’oca … in che modo ciò sarebbe diverso da quello che ha fatto finora Trump?” – la risposta ti convince poco, ti sembra debole: ma io dirò cose diverse.
“Non so se dovrei sentirmi insultato da una domanda del genere. Ho passato la vita a battermi contro tutto ciò che Trump rappresenta. … Penso che abbiamo un popolo molto disincantato nei confronti del processo politico, e che questa sia una delle ragioni per cui abbiamo un demagogo alla Casa bianca. E penso che lo scopo di un presidente che parla per il popolo americano, che crede nel popolo americano, sia di mobilitarlo in difesa delle idee in cui già crede. Quindi, se organizzo un rally, non è per attaccare gli immigrati senza documenti o gli afro-americani, non è per cercare di dividere il paese. E’ proprio il contrario: è per unire la gente”.
Il mantra conclusivo di Bernie in entrambe le interviste è un po’ più complicato di così, o così almeno credi: “non sarò solo commander-in-chief, sarò anche organizer-in-chief”.
Ma può un presidente degli Stati Uniti, il capo dell’esecutivo, chiunque egli sia e qualunque cosa dica, essere un organizer-in-chief di movimenti popolari a sostegno di se stesso? Senza con ciò cambiare la natura della vita politica? In una direzione che ti sembra strutturalmente simile a quella in cui, forse, con minore consapevolezza, andrebbe anche Donald Trump? Un poco populista illiberale? Mah, chissà.
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Categorie:presidenza
Tag:Bernie Sanders, Donald Trump, organizer-in-chief, populismo, presidente
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Molto bello Arnaldo e molto XX secolo! Noi del Novecento……
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Grazie Tiz… dovrei riscriverla in chiave positiva, analitica, comparativa, e non così come è andata, una ricerchetta cominciata in un modo e finita con sorpresa in un altro, non so, mo’ vedo. Un abbraccio.
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PS: Noi del 900 ormai s’ha novecent’anni, un po’ come Matusalemme
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