Short Cuts America: il blog di Arnaldo Testi

Politica e storia degli Stati Uniti

Donne eroine monumentali della repubblica?

06. Suffragists_1921

Portrait Monument to Lucretia Mott, Elisabeth Cady Stanton and Susan B. Anthony, 1921, by Adelaide Johnson, Carrara marble, Rotunda, U.S. Capitol, Washington, D.C.

Abbastanza timidamente prima della Guerra civile, ma già con qualche insistenza negli anni 1850s, e soprattutto con massiccia determinazione dopo la Guerra civile, il paesaggio monumentale americano si popola di eroi, a piedi e a cavallo, in divisa militare (con diverse divise militari) o in abiti civili – grandi uomini. Eroi maschili osservati con sguardi maschili, le loro sembianze in marmo o bronzo plasmate da mani maschili. Che la nazione si incarni in una polity maschile, sembra un fatto accettato, per l’opinione pubblica mainstream non è in discussione. La repubblica è fin dalle origini una “fortezza maschile” con protagonisti maschili. E quindi le donne hanno poco posto nelle sue rappresentazioni monumentali. I corpi femminili hanno un posto, in effetti, ma come corpi simbolici, ricalcati sui diffusi stereotipi dell’arte neoclassica. Sono allegorie di ideali astratti (cioè maschili), non ritratti di eroine in carne e ossa. Sono il corpo di Columbia (l’America), della dea Abbondanza, talvolta della Storia, della Giustizia o di Lady Liberty – che diventa, quest’ultimo, a seguito del centenario dell’indipendenza del 1876, il corpo della Statua della Libertà (1886).

E tuttavia dopo la Guerra civile la società è segnata da un crescente attivismo femminile pubblico e organizzato che ha un ruolo rilevante nella promozione della vera e propria statue mania o memorial mania del periodo. Delle statue monumentali (benché maschili) le donne di associazioni come Daughters of the American Revolution e United Daughters of the Confederacy ovvero di club civici di varia natura sono ideatrici, propagandiste, finanziatrici (con raccolte di fondi), curatrici. L’attivismo ha importanti risvolti culturali perché genera autonomia, indipendenza. Alcune donne forzano i confini di sesso nelle professioni e nelle arti e, nel caso specifico, diventano essere stesse produttrici di statue, scultrici professionali che lavorano per il mercato o (come gli scultori maschi) su commissione di ricchi patrons. E cominciano a produrre opere al femminile, auto-rappresentazioni di genere. L’attivismo è anche politico, in movimenti per i diritti civili e il suffragio che lamentano che, benché Giustizia e Libertà con la maiuscola siano divinità femminili, ci sia poca libertà e giustizia per le donne reali nel mondo. Le donne cominciano così a lasciare importanti tracce di sé nella vita pubblica e quindi nel civic landscape.

All’inizio si tratta di appropriarsi della propria immagine, come fanno le (neanche tanto poche) scultrici professioniste che, come i colleghi maschi, vanno ad addestrarsi e a lavorare oltremare, in particolare in Italia. Quella che Henry James nel 1903 chiama “la strana sisterhood delle ‘lady sculptors’ americane che per un periodo si sono stabilite sui sette colli [di Roma] in un white marmorean flock, un gruppo bianco-marmoreo”, offre loro ospitalità e spazi di libertà. Artiste come Harriet Hosmer (1830-1908) o l’afro-americana Edmonia Lewis (ca. 1845-1907) si esercitano nella rielaborazione di temi femminili classici, greci e romani (anche se Edmonia produce il gruppo scultoreo Forever Free, 1867, sulla fine della schiavitù negli Stati Uniti). Producono comunque opere di dimensioni ridotte, per il ridotto pubblico dei salons, delle gallerie, delle mostre (anche se Harriet conquista, rara donna, la commissione per il monumento al senatore Thomas Hart Benton a St.Louis, 1868). Intorno al giro di secolo la questione dei monumenti si pone tuttavia come cruciale, perché è chiaro che essi sono segno e riconoscimento di cittadinanza nella nazione. Inoltre la ricerca di una memoria collettiva comune anche tramite la urban beautification, nella nuova società metropolitana, industriale, immigrata, diventa una ossessione – e la statue mania raggiunge nuove vertici.

Un momento di svolta è la World’s Columbian Exposition di Chicago (1893), con il suo padiglione dedicato alle donne, disegnato e gestito da donne. Il Woman’s Building ospita incontri culturali e politici, meeting suffragisti (meeting molto bianchi, che suscitano le proteste squillanti di attiviste native e afro-americane che si sentono e sono emarginate). Ma ospita anche lavori di artiste affermate (la pittrice Mary Cassatt), fra questi sculture di donne fatte da donne. Sono figure femminili ancora una volta allegoriche: le due statue alate tipo Nike di Samotracia sul tetto dell’edificio, a ricordare le virtù e lo spirito illuminato della donna, agente di civilizzazione, entrambe di una semi-sconosciuta Alice Rideout (1874-????). Ma sono soprattutto, nelle sale interne, busti di leader abolizioniste e suffragiste: Harriet Beecher Stowe e Lucy Stone, di Anne Whitney (1821-1915); Susan B. Anthony, Elisabeth Cady Stanton e Lucretia Mott spedite dall’Italia da Adelaide Johnson (1859-1955). E questa è la novità: sono ritratti individualizzati di figure storiche reali, talvolta viventi, eroine controverse. Per destinazione e dimensioni (piccole) non sono (ancora) monumenti, ma insomma, è il Woman’s Building stesso che li contiene a essere nel suo complesso un monumento tridimensionale alla presenza delle donne nel mondo.

03. Frances-E.-Willard-statue-US-Capitol

Frances Willard, 1905, by Helen Farnsworth Mears, National Statuary Hall, U.S. Capitol, Washington, D.C.

Con il nuovo secolo alcune statue femminili diventano davvero monumenti pubblici, conquistando così un posto nel panorama visuale della narrazione nazionale. Il più significativo è probabilmente Frances Willard (1905) di Helen Farnsworth Mears (1872-1916), un tributo alla leader della Woman’s Christian Temperance Union, suffragista e riformatrice sociale, abbastanza pia e maternalista da essere scelta dai legislatori dell’Illinois per rappresentare lo stato nella National Statuary Hall – la prima statua di donna a entrare nel Campidoglio a Washington. Altre iniziative onorano donne decisamente più esotiche. Donne native americane come Sacajawea (1905) a Portland, Oregon, e dalla parte opposta del continente, a Jamestown, Virginia, la più nota Pocahontas (fusa in bronzo nel 1908, ma inaugurata solo nel 1922), entrambe trasformate nella fantasia coloniale di “madri indigene” della civiltà euro-americana. Oppure niente meno che la prima donna a cavallo, e pure armata e corazzata, e cattolica francese, la Joan of Arc (1915) di Anna Hyatt Huntington (1876-1973), nel Riverside Park di New York City. Traformata in un altro modello di womanhood patriottica, molto guerriera, che poi tornò utile quando il paese entrò nella Grande guerra.

04. Sacajawea

Sacajawea and [her son] Jean-Baptiste, 1905, by Alice Cooper, bronze, Washington Park, Portland, Oregon.

05. Joan Riverside

Joan of Arc, 1915, di Anna Hyatt Huntington, bronze, Riverside Park, New York City.

E poi, alla fine del lungo Ottocento americano, dopo la Grande guerra, c’è il primo vero evento monumentale e la prima controversia del Novecento. Quando è ormai chiaro che il 19° Emendamento sta per passare, che il diritto di voto è assicurato, che il suffragismo ha trionfato, alcune attiviste propongono a Adelaide Johnson di fare copie dei suoi busti del 1893 delle tre “madri fondatrici” (Mott, Cady Stanton, Anthony) per donarle al Congresso. Johnson decide di fonderle in un unico blocco marmoreo, per sottolineare la dimensione collettiva del movimento da cui le tre leader emergono; il suo primo titolo è appunto The Woman’s Movement. L’opera è inaugurata il 15 febbraio 1921 nella Rotunda del Campidoglio con il titolo più burocratico Portrait Monument to Lucretia Mott, Elizabeth Cady Stanton, and Susan B. Anthony (1921, vedila in testa al post). In mezzo a liti settarie: è sponsorizzata dal radicale National Woman’s Party di Alice Paul, quindi boicottata dalla moderata NAWSA e dalla League of Women Voters. E con segnali poco promettenti da parte del Congresso: il giorno dopo l’inaugurazione il monumento è spostato dalla Rotunda alla Capitol Crypt, al piano di sotto, molto meno in vista. Le donne entrano ufficialmente nel “cerchio del noi”, d’accordo – ma non al piano nobile.

Il Portrait Monument risale al piano nobile quasi ottant’anni dopo, nel 1997. E a questo punto risale a nuove, diverse controversie: perché tre donne bianche? I tempi sono di nuovo cambiati. (Nel 2009 nella Campidoglio viene aggiunta la statua dell’abolizionista e suffragista nera Sojourner Truth, alla presenza di tre autorità femminili: la prima First Lady afro-americana, Michelle Robinson Obama, la Secretary of State Hillary Clinton, la House Speaker Nancy Pelosi.)

07. Sojourner copia

Sojourner Truth Bust, April 29, 2009, by Artis Lane (1927-), bronze, Emancipation Hall, Visitor Center, U.S. Capitol, Washington, D.C

Categorie:nazionalismo

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