Le elezioni congressuali americane, in particolare quelle per la Camera dei rappresentanti, sono così “nazionalizzate” e così partisan che i candidati locali contano sempre di meno, chiunque essi siano. Cioè, gli elettori votano in ogni singolo collegio per il partito preferito a livello nazionale, e votano allo stesso modo sia per la Camera che per il presidente. E non importa se il candidato locale è una giovane sfavillante donna radicale oppure un noioso maschio centrista di mezza età, un po’ calvo.
Una ricerca dello scienziato politico Alan Abramowits, che circola sulla stampa generalista ma di cui ancora non si vede il paper scientifico, dice che nel 2016 la correlazione collegio per collegio fra il voto presidenziale e quello congressuale è stata pressoché perfetta. (In termini tecnici – l’indice di correlazione è stato di 0.97, in una scala che va da zero a 1, in cui zero indica nessuna correlazione e 1 indica correlazione perfetta: 0.97 significa appunto correlazione perfetta per quanto perfette possano essere le cose umane. Fino agli anni 1980s l’indice di correlazione era intorno a 0.6, positivo ma così così.)
Anche le elezioni congressuali di medio termine del 2018, quando il Presidente non è stato in ballo, sono state probabilmente le più nazionalizzate della storia. La conclusione di un processo storico di nazionalizzazione del comportamento elettorale che ha varie cause sociali, politiche, ideologiche, mediatiche, che non discuto qui. E che Abramowitz ha descritto altrove con un titolo che rovescia la vecchia saggezza di strada che diceva, “All politics is local” – per dire invece “All politics is national”.
E dunque: se siete un elettore in quel collegio lì, lo scopo del vostro voto non è scegliere il vostro rappresentante locale con il bilancino ideologico, valutare se i candidati offerti dal mercato sono abbastanza progressisti o moderati o convergenti al centro per soddisfare le vostre perfezioniste simpatie. Lo scopo è piuttosto far sì che il vostro partito preferito diventi maggioranza nell’assemblea legislativa nazionale. E quindi conta poco quale delle cinquanta sfumature ideologiche abbia il candidato stesso, purché sia del vostro partito.
Se siete un elettore Democratico (gli esempi fatti sulla stampa generalista riguardano in genere i Democratici, ma ciò vale anche per i Repubblicani), può capitarvi in sorte di dover votare per la socialisteggiante Alexandria Ocasio-Cortez o per un’altra radicale come lei, Ilhan Omar o Rashida Tlaib o Ayanna Pressley – “the squad” insomma. Oppure per Elissa Slotkin o un’altra del gruppo di deputate moderate ed ex-militari del Service First Women’s Victory Fund. O per qualche protetta di Nancy Pelosi. Ma ciò non fa alcuna differenza dal punto di vista del risultato.
Insomma, votate in base alla preferenza di partito, non della corrente o fazione interna al partito stesso. Lo specifico carattere ideologico della candidata, progressista o moderata o quant’altro, rispecchia le preferenze dello zoccolo duro locale del partito, quindi dell’elettorato delle primarie, non dell’elettorato generale. Una volta concluse le primarie, il gioco è fatto, chiunque sia la candidata ufficiale del partito.
Questo significa che, in prospettiva, i Democratici possono guardare con relativa tranquillità alle loro diversità interne o alle faide o alla vera e propria inner civil war di cui esagera qualcuno. Non devono avere paura delle candidature troppo progressiste. Ma neanche di quelle moderate. Alle elezioni generali è il partito nel suo complesso che vince o perde. E magari vince o perde anche perché è un partito complesso.
Naturalmente la tranquillità non è di questo mondo. Questo è un discorso o un paradigma generale. Dopodiché anche al suo interno esistono gli outliers, i casi anomali o marginali, i pochi collegi in cui si vince o si perde per pochi voti, e magari quei pochi voti sono, ahimé, influenzati dal carattere delle candidature, e quei pochi seggi vinti o persi in questo modo sono decisivi per decidere la maggioranza alla Camera… Insomma, i mal di testa non finiscono mai.
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