La sinistra americana, in alcune sue componenti, è tentata di abbracciare politiche restrizioniste dell’immigrazione, e cerca sostegno nella storia. In un libro di un paio di anni fa sul New Deal, The Great Exception, lo storico Jefferson Cowie sostiene una tesi che è riecheggiata anche in questo blog (mi è servita per cercare di spiegare Donald Trump, qui e qui). E cioè che sul lungo periodo della storia nazionale esiste un rapporto significativo fra l’alto tasso di concentrazione della ricchezza e l’intensità dei movimenti immigratori nel paese, misurati con la percentuale di nati all’estero sull’intera popolazione. A ciò si aggiunge il rapporto altrettanto significativo con l’aumento del conflitto politico sempre più radicale fra i partiti e l’emergere di movimenti popolari ultraconservatori o reazionari. La correlazione positiva fra i tre fenomeni, diseguaglianza economica, immigrazione di massa e polarizzazione ideologica, è stata massima alla fine dell’Ottocento, nel periodo noto come la Gilded Age, e lo è di nuovo oggi, fra fine Novecento e inizio del millennio, nel periodo che qualcuno ha battezzato la seconda Gilded Age.
Fra i due periodi di cui sopra, dice Cowie, c’è stata la grande eccezione, il New Deal appunto. La politica di riforme sociali e del lavoro, e di redistribuzione della ricchezza, del New Deal sono state rese possibili da alcune condizioni eccezionali. Fra queste c’erano ovviamente la Grande depressione e poi la guerra anti-fascista e la competizione internazionale con una potenza comunista, ma anche e forse soprattutto, almeno dal punto di vista che ci interessa qui, l’interruzione per legge della grande immigrazione avvenuta già prima che depressione e guerra colpissero con durezza, cioè alla metà degli anni 1920s. Non a caso, la crisi e il crollo dell’ordine sociale e politico del New Deal sono poi avvenuti in concomitanza con la ripresa dell’immigrazione di massa dopo che le frontiere sono state riaperte, di nuovo per legge, alla metà degli anni 1960s. Insomma, come nelle analisi proposte per altri paesi simili, nel secolo scorso, sembra che anche per gli Stati Uniti l’esperienza della socialdemocrazia e del welfare state si sia fondata sul controllo selettivo delle frontiere nel contesto dello stato nazionale sovrano (nonché su una certa dose di guerra fredda).
La spiegazione specifica americana è piuttosto semplice. Le politiche egualitarie del lungo New Deal, fra gli anni 1930s e gli anni 1960s, sono state rese possibili dalla spinta energica di un movimento operaio costruito sulla solidarietà della working class, soprattutto bianca. Questa solidarietà si fondava su una forza-lavoro che aveva raggiunto un buon livello di stabilità e di assimilazione culturale (più o meno americanizzata nella whiteness), grazie al blocco delle nuove immigrazioni e al superamento delle vecchie divisioni nazionali, etniche, linguistiche, religiose. E’ infatti molto difficile avere solidarietà laddove la classe operaia è sconvolta da un flusso continuo di immigrati di diversa provenienza, che inevitabilmente, almeno nella sua fase più intensa, genera fratture e ostilità fra i lavoratori stessi e ostacola il loro consolidamento in un blocco politico-elettorale efficace. Le migrazioni di massa, inoltre, producono reazioni popolari nativiste (anche operaie), che complicano ulteriormente il quadro. E’ ciò che è accaduto prima del New Deal, durante la seconda grande ondata migratoria fra Guerra civile e Prima guerra mondiale. E’ ciò che è accaduto dopo, che sta accadendo oggi.
Da considerazioni di questo tipo, alcuni ricavano la conclusione che la sinistra debba adottare, per il bene dei lavoratori e della democrazia sociale, delle politiche restrizioniste dell’immigrazione. Per ricreare in qualche modo le condizioni del New Deal (nient’altro che un sogno nostalgico, secondo Cowie, che non approva). E riprendendo argomenti che già erano propri del labor movement alla fine dell’Ottocento e anche in anni più recenti. Negli Stati Uniti come in Europa, si dice, le migrazioni di massa hanno prodotto movimenti popolari di destra, nazionalisti e xenofobi, che hanno eroso il consenso alle politiche progressiste egualitarie rendendole impraticabili. E impraticabili resteranno, ammenoché i progressisti non riescano a governare il fenomeno, a ridurne la portata, a ridurne la paura. L’assolutismo morale sui diritti dei migranti, si dice, ha impedito alla sinistra di vedere che la mobilità transnazionale del lavoro va a beneficio del grande capitale, dà il colpo di grazia al movimento operaio organizzato, sottrae ai paesi più poveri energie e talenti, mette i ceti popolari gli uni contro gli altri. E comunque: se i progressisti rifiuteranno di limitare l’immigrazione, gli elettori recluteranno la destra autoritaria a fare lo sporco lavoro.
In un articolo sul settimanale New York, Eric Levitz ripercorre queste argomentazioni e dice che “non sono così implausibili come [gli] piacerebbe che fossero”. Ma dice anche che ci sono altri fattori che le contraddicono, almeno negli Stati Uniti (in Europa chissà), e che offrono speranze a una sinistra che non voglia essere guardia armata alle frontiere. In particolare Levitz riprende il tema più noto: le trasformazioni demografiche degli ultimi decenni hanno prodotto non solo reazioni isteriche ma anche un’America più diversa e più progressista. L’immigrazione di massa ha favorito la crescita della coalizione politica democratica, ha rivitalizzato l’attivismo sindacale, ha messo in difficoltà i conservatori repubblicani. Il partito repubblicano sta diventando un partito di minoranza che esercita il potere politico solo grazie alle istituzioni contro-maggioritarie come il Senato, il collegio elettorale presidenziale, il gerrymandering. (E non a caso vede le frontiere aperte come una minaccia esistenziale.) Mentre il partito democratico ha spostato a sinistra il suo baricentro su questioni come il razzismo, la sanità pubblica, il salario minimo o l’immigrazione stessa, proprio animato dalle nuove constituencies urbane e non eurobianche.
A ciò si aggiunga un fattore altrettanto importante e decisivo nella storia americana: la rapida diversificazione etnica del paese ha messo in discussione un pilastro fondamentale del conservatorismo interclassista e popolare del paese, e cioè il razzismo, l’idea (anche inconscia) di white supremacy, l’eredità culturale della schiavitù. E’ questa cultura che ha spostato quasi tutto l’elettorato bianco del Sud verso i repubblicani, prima colà inesistenti, subito dopo la fine della segregazione razziale negli anni 1960s. O che ha spinto settori di classe operaia bianca ad abbandonare i democratici dopo le leggi sui diritti civili di Lyndon Johnson o, più di recente, dopo l’elezione di Barack Obama. Negli ultimi decenni, invece, l’arrivo di lavoratori stranieri che si sono formati in altri ambienti storici, che hanno meno interesse al mantenimento della supremazia bianca, o non ne hanno alcuno in quanto sono essi stessi persone di colore, può diluire la forza del revanscismo bianco, limitarne o emarginarne gli effetti. Naturalmente, conclude Levitz, in tutto ciò non vi è alcun determinismo o destino manifesto. Si tratta di opportunità politiche che possono essere colte, oppure no. Colte nella loro novità, senza pensare di ripetere esperienze del passato.
Categorie:Immigrazione
Tag:frontiere, immigrazione, New Deal, Partito democratico