Su Repubblica (il link è chiuso, almeno per me, ma le stesse cose le avete già lette in precedenti interviste) David Grossman parla, come al solito e con la solita intelligenza, dello scrivere come atto politico. Dice della necessaria disponibilità dello scrittore a “sentire e comprendere l’altro dentro di noi, anche quando l’altro ci minaccia perché è diverso, e incomprensibile. Anche quando l’altro è nostro nemico dichiarato”. Dice in particolare, com’è ovvio per lui, della “disponibilità a leggere la realtà (il conflitto tra israeliani e palestinesi, ad esempio, o i cinquantun anni di occupazione dei territori palestinesi da parte di Israele) non solo con gli occhi di noi israeliani ma anche con quelli del nostro nemico”. Vale per lo scrittore di fiction, è anche il mestiere dello storico.
Per noi che leggiamo Grossman su Repubblica e che viviamo nella nostra bolla, queste parole sono tuttavia troppo facili da apprezzare. Per noi sono molto meno impegnative di quanto lo siano per lui, perché ci danno ragione, ci confermano nelle nostre posizioni politiche e nella nostra superiore sensibilità d’animo e d’intelletto. Le pensiamo come un perentorio consiglio, come un invito paternalistico agli zombi insensibili che ci circondano, alle moltitudini populiste: orsù, ragazzi, datevi una smossa, cercate di comprendere l’altro dentro di voi, il vostro nemico, l’immigrato e il rom, o il gay (o il palestinese di turno), invece di sentirvi minacciati, invece di invocare stereotipi di paura, ruspe e filo spinato – zombi che non siete altro.
Il punto è che qui giochiamo un po’ a fare gli ipocriti. Perché per noi che leggiamo Grossman su Repubblica quell’altro e quel diverso lì, l’immigrato e il rom, o il gay (o il palestinese), non sono affatto il nemico, o almeno ci piace pensarla e pensarci così. Abbiamo altri pregiudizi. Per noi il vero altro, il vero diverso, il vero nemico minaccioso sono invece proprio gli zombi insensibili che ci circondano. A rigor di logica, è nei loro confronti che dovremmo esercitare tutta la nostra disponibilità a sentire e comprendere la loro umanità, invece di etichettarli con stereotipi di paura che magari arrivano a negarla, la stessa nostra comune umanità. Anche a rigor di politica sarebbe bene far così, direi, se si vuole una politica che ci porti fuori dalla bolla.
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Tag:David Grossman, paura, stereotipi