
Ihlan Omar, Member-elect of the U.S. House of Representatives from Minnesota, 2018
Sembra che la nuova leadership democratica della Camera del rappresentanti, con l’accordo di Nancy Pelosi, che diventi Speaker o meno, abbia intenzione di abolire o meglio “chiarire” il significato della vecchia regola che vieta ai deputati di indossare qualunque tipo di cappello mentre sono in aula (nulla vi si dice a proposito dei toupet). Sarebbe quindi consentito l’uso di copricapi per ragioni mediche o di tipo religioso. Per dire, chi ha perso i capelli per un trattamento chemioterapico avrà la possibilità di coprirsi. Ma soprattutto: Ilhan Omar, una Somali-American del Minnesota, sarà la prima deputata a poter entrare in aula a testa coperta, con un hijab, uno dei veli tradizionali delle donne musulmane. “Nessuno me l’ha messo in testa se non io stessa”, dice. “E’ una mia libera scelta – protetta dal Primo emendamento”. (L’altra nuova deputata musulmana, Rashida Tlaib del Michigan, di origine palestinese, non indossa alcun velo). Naturalmente, anche altri copricapi religiosi sarebbero ammessi, certo la kippa dei maschi ebrei osservanti, non mi è chiaro se anche, per esempio, il turbante di un eventuale maschio Sikh – ma non può che essere così.
La questione, in questi giorni, è trattata dal punto di vista della storia del costume, magari con qualche implicazione politica o di storia di genere. Il divieto di indossare cappelli nell’aula della Camera risale agli anni 1830s. Un tentativo controverso e sfortunato di introdurlo fu quello del 1833 del democratico James K. Polk del Tennessee, che quindici anni dopo divenne il presidente della conquista del Messico. L’opposizione avanzò molte riserve e vinse. Alcuni dissero che se gli onorevoli deputati fossero stati costretti a togliersi il cappello, non avrebbero saputo dove metterlo (il Campidoglio era piuttosto primitivo quanto a servizi). Altri, più politici, fecero notare che l’abitudine di non scoprirsi il capo derivava dal Parlamento britannico, dove era simbolo di indipendenza, di mancanza di deferenza nei confronti della corona. E qui a Washington, si disse, è simbolo di libertà politica e spirituale dal potere esecutivo. Se l’esecutivo avesse cercato di esercitare indebite influenze, sarebbe stato affrontato con il cappello in testa e non in mano. (Mi chiedo se tutto ciò avesse a che fare con il dispotico presidente Andrew Jackson, detto anche King Andrew.) Pochi anni dopo, nel 1837, il divieto passò invece senza sollevare obiezioni.
Per i gentlemen del tempo togliersi il cappello indoor era comunque una questione di buone maniere. Per le signore non era così, anzi il cappello nelle occasioni sociali era un must, ma ovviamente allora non c’erano donne alla Camera, neanche potevano votare. Quando vi arrivarono le prime deputate, anch’esse si adeguarono. La prima in assoluto fu Jeannette Rankin, repubblicana del Montana eletta nel 1916, una pacifista che espresse uno dei voti contrari all’entrata degli Stati Uniti nella Grande guerra. Le fotografie la ritraggono, come tutte le contemporanee, con cappelli di varia foggia, in particolare unica donna e unica a capo coperto in una foto di gruppo di deputati – ma all’aperto, di fronte al Campidoglio. Mentre interviene in assemblea per esprimere il suo fatidico “no” il 5 aprile 1917, è a capo scoperto anche lei. In anni più recenti sono noti alle cronache gli assalti alle regole di alcune deputate hat-addicted, per esempio l’esuberante attivista anti-war e femminista newyorkese Bella Abzug negli anni 1970s. Oppure la deputata della Florida Frederica Wilson, che nel 2010 prestò giuramento con uno Stetson rosso paillettato ma poi se lo dovette togliere per entrare in aula. Dopo qualche vibrata protesta entrambe ritennero di lasciar perdere per non apparire frivole, si sentirono costrette a dire cose serie, tipo siamo qui per concentrarci sulle issues, mica sulla fashion.

Jeannette Rankin after being sworn in as a member of the U.S. House of Representatives from Montana, April 2, 1917

Jeannette Rankin casting her vote against the declaration of war on Germany, April 5, 1917
Ora il bando sarà sollevato o ammorbidito ma solo per i copricapi religiosi, o così sembra. Certo per accomodare alcune esigenze individuali, ma con inevitabili implicazioni generali che riguardano l’indossare simboli di fede in uno spazio pubblico istituzionale. Non mi pare che la cosa sia davvero affrontata in questi termini, almeno per il momento. In effetti un sito di destra ha già fatto in tempo a esplodere: ora che gli immigrati hanno in mano la Camera e che i musulmani si avviano a prendersi il partito democratico… I promotori democratici parlano ovviamente di rispetto e valorizzazione delle diversità. Il loro frame culturale è quello che sottolinea come l’America non sia la Francia, la laicità non sia un valore costituzionale (in Francia simboli o abiti di tipo religioso sono proibiti ai legislatori). Negli Stati Uniti, si dice, la separazione fra stato e chiesa fa sì che il governo non ficchi il naso nelle manifestazioni individuali di fede, che sono protette dal principio di libertà di espressione religiosa. Resta il fatto che nulla cambierà per la povera onorevole Wilson, tuttora in carica, perché i suoi cappelli sono normali, secolari, senza implicazioni teologiche – almeno finché non riesca a inventarsi qualcosa in proposito, qualche personale setta prêt-à-porter.

Frederica Wilson, Member of the U.S. House of Representatives from Florida, 2011-present
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