“Antifa” vuol dire antifascista, ma antifascista di quelli tosti, di quelli che, agendo in gruppi molto decentralizzati, contendono gli spazi pubblici, le strade e le piazze ai militanti dell’estrema destra; street fighters spesso incappucciati e inzainati, magari con il volto coperto, disposti allo scontro fisico violento, anche con la polizia, a cui sono preparati e di cui non si lamentano. Gente che non verrebbe mai a raccontarvi, perché sa che non è vero e perché ha comunque una dignità da difendere, che “la polizia ha picchiato i dimostranti”. (Talvolta lo dicono o scrivono i media che vorrebbero essere simpatizzanti ma un po’ così, all’acqua di rose, condiscendenti, e il risultato è che dalle loro cronache non capite mai un accidenti di che cosa sia davvero successo).
Il movimento è minoritario e internazionale. I suoi simboli compaiono in Germania e Gran Bretagna, dove sembra sia nato nella sua forma contemporanea, anche all’interno della scena controculturale punk. E poi in altri paesi, in Nord Europa, in Francia e Spagna, in Italia. E’ comparso anche negli Stati Uniti, soprattutto dopo l’elezione di Donald Trump e la maggiore visibilità assunta dai gruppi ultraconservatori, xenofobi, razzisti, in certi casi francamente nazisti più che fascisti. Ma l’etichetta di fascista copre con agio tutte queste varianti, e Antifa vi si propone come la risposta giusta. Di recente capita che la risposta sia accompagnata dall’esibizione delle armi dei cosiddetti “Rednecks” (vedi qui) che portano fucili d’assalto e pistole in bella vista e a viso scoperto, novelli sostenitori del Secondo emendamento a scopi, va da sé, di autodifesa. E’ l’America, fratello.
La logica di Antifa sembra essere: nessun manipolo di fascisti è troppo piccolo e marginale per essere ignorato. All’inizio, si dice, erano minuscoli anche i nuclei fascisti e nazisti storici; andavano combattuti e soppressi nella culla, prima che crescessero e diventassero potenti movimenti di massa. Quelli di oggi potrebbero avere lo stesso sviluppo in prospettiva; inoltre, anche se sono composti da poche persone, rappresentano un pericolo per i cittadini più deboli, in particolare gli immigrati – una cosa di cui voi osservatori per bene, che vivete in un altro mondo, non vi rendete conto. Bisogna dunque agire subito, agire di conseguenza, organizzarsi e impedire a loro di organizzarsi, di parlare anche. Questo almeno vi racconta lo storico radicale americano (ex Occupy Wall Street) Mark Bray in Antifa: The Anti-Fascist Handbook, un libro che è parte storia transnazionale e parte, come dice il titolo, manuale d’uso per attivisti.
Il libro di Bray è pieno di suggestioni e informazioni, e andrà rivisto per questo con maggiore attenzione, o forse no, chissà. Per il momento mi limito a leggere per voi le pagine in cui ragiona sulle origini storiche del fenomeno Antifa, nella prima parte del Novecento. E le origini sono naturalmente europee, vicino a casa vostra. Sono citati gli Arditi del Popolo italiani del 1921, la milizia antifascista che cercò di resistere all’ascesa delle camicie nere di Mussolini. Sono citate le varie formazioni militanti socialiste, comuniste e anarchiche che, dieci anni dopo in Germania, cercarono di fare lo stesso con le camicie brune di Hitler. Sono citate la resistenza operaia della Vienna rossa negli anni 1930s e infine le brigate internazionali della guerra di Spagna del 1936-1939.
Se state cercando disperatamente di toccare ferro, di fronte a questi esempi, a questi modelli, vi capisco. Si tratta infatti di esempi e modelli di tragici fallimenti che, così a prima vista, senza far ricorso ad analisi troppo sofisticate, dovrebbero far riflettere sull’opportunità di ripeterne l’esperienza. Oppure no: secondo la lezione di Antifa, essi starebbero lì a dimostrare che allora si fece troppo poco, e che oggi si deve fare di più. O ancora, secondo i critici più inaciditi: almeno in Italia e Germania fu proprio la lotta militante dei buoni antifascisti a trasformare la resistenza democratica in una guerra per bande, favorendo l’avvento dei cattivi. Tante sono le lezioni della storia, così tante che non servono a niente.
E quale lezione ricavereste dalla “battaglia di Cable Street” del 4 ottobre 1936 a Londra? Quel giorno una manifestazione della British Union of Fascists (BUF) di Oswald Mosley fu attaccata da decine di migliaia di antifascisti al grido spagnolo di “Non passeranno”. Ci furono barricate, scontri con la polizia a cavallo, lanci di sassi e mattoni, bombe molotov. Alla fine la manifestazione fu annullata. E dunque? Nell’immediato la BUF ne trasse vantaggio, reclutò più iscritti e ebbe più voti, poi lentamente declinò finché nel 1940 fu messa fuori legge. Se Mosley “non passò” quel giorno e negli anni successivi – fu grazie all’antifascismo militante? O malgrado quell’antifascismo, e grazie alla più generale solidità democratica della società britannica? O grazie allo scoppio della guerra?
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