Il discorso del presidente degli Stati Uniti è un discorso da capo dell’opposizione e, in maniera più problematica, di anticipazione della campagna presidenziale del 2016. O almeno provo a considerarlo così, nella sua parte programmatica di politica interna. Certo, per i prossimi due anni Obama resta commander in chief. Ha le prerogative non indifferenti dell’azione esecutiva e la visibilità, il privilegio retorico del bully pulpit. Ha l’arma del veto, e ha promesso di usarla sulle questioni a lui più care, quelle che definiscono i successi e quindi l’eredità politica e storica della sua (passata) amministrazione.
Ma già il veto è una forma di opposizione, di ostruzionismo alle decisioni di una maggioranza legislativa che non è la sua. E che non ha alcuna intenzione di dargli retta. C’è il passaggio iniziale della risposta della portavoce repubblicana, la senatrice Joni Ernst, che è molto esplicito nella sua insolenza: “Poco fa abbiamo ascoltato il presidente esporre la sua visione dell’anno che verrà. Anche se non siamo sempre d’accordo, è importante ascoltare diversi punti di vista in questo grande paese. Apprezziamo il fatto che il presidente abbia condiviso il suo”. Insomma, come si dice al bar, che diamine – siamo un paese libero, ognuno può dire ciò che vuole.
Il programma di Obama è un programma di opposizione per la sua radicalità progressista. Sono le cose che si dicono quando non si ha il potere di attuarle. E’ la poesia che prescinde dalla prosa del governare. Serve per tracciare una linea netta sulla sabbia, per compattare il suo partito di minoranza, per distinguersi dal partito di maggioranza, per affibbiargli la responsabilità di essere il partito del “no” – il no alle sue proposte, naturalmente. Un vantaggio tattico a doppio taglio. Perché, di fronte ai suoi veti, la maggioranza repubblicana è pronta a rivolgere la stessa accusa contro di lui e il suo partito. E chi riuscirà più convincente presso l’opinione pubblica è tutto da vedere.
Il programma di Obama serve anche a influenzare la prossima campagna presidenziale. A preconfezionare una piattaforma elettorale per il suo partito. O meglio, potrebbe servire a questo se tutto il partito fosse d’accordo nel sostenerlo, nel farlo proprio. Ma non è affatto chiaro che sia così. In questo senso è anche uno strumento di lotta interna alla leadership democratica. Che sia un ostacolo, troppo progressista, spostato a sinistra, gettato sulla strada della candidatura più centrista di Hillary Clinton? O almeno un mezzo per condizionarne i movimenti? Che possa essere usato da assist a un’area più liberal che guarda con favore a una figura come Elisabeth Warren?
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