Short Cuts America: il blog di Arnaldo Testi

Politica e storia degli Stati Uniti

Tre improvvisazioni che fecero la storia? Obama, Kerry e il pasticcio siriano.

whpcTutta la drammatica faccenda siriana delle ultime settimane sembra ruotare, dal punto di vista americano, intorno a tre risposte estemporanee, improvvisate – buttate lì nel corso di tre conferenze stampa da Obama e dal segretario di stato John Kerry. E’ possibile che questioni di tanta importanza, e le svolte di politica estera che ne derivano, dipendano da questo?  Ho cercato di ricostruirne la storia, con il materiale che ho trovato. Che sia una storia a lieto fine, è ancora difficile dire – si sono rimessi in movimento giochi diplomatici di ampia portata, tutti da vedere. Parlare di lieto fine è comunque cinico, visto che le guerre civili in Siria, e i massacri, continuano. E’ una storia un po’ lunga (il post è un po’ lungo). Vi hanno un ruolo anche le domande insistenti dei giornalisti.

La storia comincia con la famosa “linea rossa” tracciata da Obama più di un anno fa, e che più di ogni altra cosa lo ha messo nei guai. Malgrado i goffi tentativi di sostenere a posteriori che non era stato lui a stabilirla, ma “il mondo” (a Stoccolma, il 4 settembre scorso) – be’, non è vero, è stato proprio lui. Era stato lui nella conferenza stampa alla Casa bianca del 20 agosto 2012. In risposta a una domanda di Chuck Todd di NBC News, che lo tallonava proprio su questo: ma allora, davvero non avete in mente di usare la forza  in Siria, “se non altro, semplicemente, per la messa in sicurezza delle armi chimiche, siete sicuri che le armi siano al sicuro?”

Il cuore della domanda è dunque il timore che il governo siriano non abbia abbastanza controllo sui suoi depositi, che i gas tossici possano cadere nelle mani di gruppi terroristi. E questo è anche il cuore finale della risposta che, come al solito per Obama, è prolissa. Il presidente la prende da lontano. Assad, dice, ha perso legittimità ma non se ne va. Noi forniamo aiuti umanitari, vogliamo impedire che centinaia di migliaia di rifugiati destabilizzino i paesi vicini. Lavoriamo con la comunità internazionale per una transizione politica. Comunque: “Non ho, a questo punto, ordinato alcun impegno militare”.

E poi le parole fatali. “Ma la questione che hai sollevato sulle armi chimiche e biologiche è cruciale. E’ una questione che non riguarda solo la Siria; riguarda i nostri più stretti alleati nella regione, compresa Israele. Riguarda noi. Non possiamo avere una situazione in cui armi chimiche o biologiche cadano nelle mani delle persone sbagliate. Siamo stati molto chiari con il regime di Assad, ma anche con gli altri attori sul terreno, che c’è per noi una linea rossa, se cominciamo a vedere un sacco di armi chimiche spostate qua e là o utilizzate. Ciò cambierebbe i miei calcoli. Ciò cambierebbe la mia equazione”.

Sembra che questi commenti seminassero il panico fra i consiglieri della Casa bianca. Da dove veniva fuori quella “linea rossa”? Non ne avevano mai sentito parlare, durante le loro riunioni. L’idea era di mettere un po’ di pressione su Assad ma, nelle parole di uno di loro bisbigliate al New York Times, “senza intrappolare il presidente in una azione predeterminata”. La frase era del tutto “unscripted”, non preparata, fuori copione, e se la sarebbero volentieri rimangiata. Tuttavia non fu né smentita né corretta da nessuno. E con il tempo perse le sfumature che aveva nel contesto – e si consolidò come posizione ufficiale dell’amministrazione.

Fast forward, poco più di un anno dopo. La storia prosegue a San Pietroburgo, al meeting del G20, il 6 settembre 2013, un venerdì (ora anche i giorni contano). Alla conferenza stampa finale, Obama risponde a Major Garrett del network conservatore Fox News, che gli chiedeva se l’annunciato intervento armato “punitivo” ci sarebbe stato o no. Se non c’erano novità che potessero rinviarlo. Per esempio, dice Garrett, “alcuni in Congresso hanno suggerito di dare al regime siriano 45 giorni per firmare la Convenzione sulle armi chimiche, per liberarsi dei suoi arsenali – per fare qualcosa che aumenti la accountability internazionale della Siria e allontani l’azione militare. Signor Presidente, sta esaminando alcune di queste idee?”

La risposta, di cui in parte ho già parlato in un precedente post, è questa: “Do ascolto a tutte queste idee. E alcune sono costruttive. Do ascolto alle idee che vengono dal Congresso, e do ascolto alle idee qui [a San Pietroburgo]. Ma voglio ripetere: Il mio scopo è quello di riaffermare la norma internazionale sulla messa al bando delle armi chimiche. Voglio che la sua applicazione sia realmente rispettata. […]  Se ci sono strumenti che possiamo usare per ottenere questo, ovviamente la mia preferenza sarebbe, di nuovo, quella di agire sul piano internazionale in modo serio e di far capire al signor Assad che stiamo facendo sul serio”.

Ancora: “Non muoio dalla voglia di avviare un’azione militare. Ricordati, Major, che nell’ultimo paio d’anni sono stato criticato per non essere intervenuto proprio da alcuni di quelli che ora dicono di opporsi all’intervento [Cioè, per esempio, voi conservatori? Nota mia]. E penso di avere la meritata reputazione di prendere molto sul serio e con moderazione l’idea di un impegno militare”. E infine: “Ma voglio sottolineare che continuiamo a consultarci con i nostri partner internazionali. Do ascolto al Congresso. Non mi limito alle chiacchiere. E se ci sono buone idee che valga la pena perseguire sono disponibile a considerarle”.

And if there are good ideas that are worth pursuing then I’m going to be open to it. Queste parole non sono state molto notate dai media, e non riesco a trovare analisi sulle reazioni, if any, dall’interno dell’amministrazione Obama. Parole dal sen fuggite? Un segnale di apertura a un ripensamento in corso? Oppure sweet talk, imbonimento dell’opinione pubblica? Mi limito a osservare come, anche in questa occasione, il cuore della domanda e della risposta sia sempre l’ipotesi di convincere o costringere il governo siriano a mettere le armi chimiche sotto il controllo internazionale – un’idea che circolava da tempo.

E infine il terzo caso, tre giorni dopo, il 9 settembre, lunedì mattina a Londra (ora contano anche le ore, il tempo accelera). Ancora una conferenza stampa, congiunta fra John Kerry e il ministro degli esteri britannico William Hague. Ancora un giornalista, la giornalista Margaret Brennan di CBS, che chiede: “c’è niente a questo punto che il governo di Assad potrebbe fare o offrire che fermerebbe l’attacco?” La risposta di Kerry è secca: “Potrebbe consegnare ogni singolo pezzo delle sue armi chimiche alla comunità internazionale entro la prossima settimana. Consegnarli, tutti, senza indugio, e consentirne un resoconto pieno e totale”. Poi aggiunge: “Ma non lo farà, e non si può fare, ovviamente”.

Di nuovo parole improvvisate, dette tanto per dire, anzi per escludere con scetticismo ogni apertura? La portavoce del Dipartimento di stato si affretta a chiarire che Kerry stava solo facendo “un ragionamento retorico sull’impossibilità e improbabilità” della cosa. Sembra che non se ne sia affatto discusso a Washington durante le riunioni del precedente weekend. Certo non vi ha accennato il capo di gabinetto della Casa bianca, Denis McDonough, durante varie interviste domenicali. E tuttavia, subito dopo la strana uscita di Kerry, l’amministrazione Obama è già sul pezzo. Dice ai cronisti Antony Blinken, il vice-consigliere per la sicurezza nazionale: “Accoglieremmo volentieri la decisione e l’azione della Siria di rinunciare alle armi chimiche”.

Poi, poche ore dopo, arriva la proposta del ministro degli esteri russo Sergey Lavrov e – come si suol dire, the rest is history. Una sorpresa per tutti? Comunque una sorpresa di cui Kerry è stato informato in anticipo. Sull’aereo che lo riporta a casa, Kerry racconta al press corps che l’accompagna che i russi gli hanno comunicato la proposta, prima di renderla pubblica. Racconta di aver parlato un quarto d’ora al telefono con Lavrov. Intanto, in un’intervista pomeridiana (ora di Washington) con la CNN, Obama conferma di essere disposto a “impegnarsi con i russi e la comunità internazionale per vedere se si può arrivare a qualcosa che sia attuabile e serio”. La proposta? “E’ possibile, se è reale”.

Tutto casuale, dunque, appeso a parole dette con leggerezza, su stimolo dei giornalisti, che improvvisamente diventano pesanti? Perché no, le cose succedono anche così. Purché si tenga conto, credo, di un paio di considerazioni di background, strutturali. La prima è che il presidente non ha mai avuto voglia di intervenire militarmente in Siria. La stessa dichiarazione sulla “linea rossa” era stata un modo maldestro per sottrarsi alla pressione degli interventisti: violando l’abc del piccolo diplomatico, aveva messo una condizione che sembrava improbabile, fatto una promessa che pensava non avrebbe mai dovuto onorare. Era dunque alla ricerca di una via d’uscita dall’impasse in cui si era cacciato da solo. Ed era disposto a cogliere al volo la buona occasione per farlo. Obama è in fondo un realista, magari “nascosto”, un “closet realist” –­ non è George W. Bush.

La seconda considerazione è che, forse, non conosciamo (ancora) l’intera storia dell’operazione. Per esempio. Secondo l’analista di sicurezza nazionale del Washington Post, sono mesi che russi e americani stanno preparando un piano per smantellare gli arsenali chimici siriani. L’iniziativa è nata dall’incontro di Obama e Vladimir Putin al meeting del G8 in Messico, il 18 giugno 2012 (quindi prima dell’invenzione della “linea rossa”). Ed è proseguita in una serie di colloqui fra Kerry e Lavrov. I quali, nel maggio di quest’anno (quindi prima dei gas d’agosto), hanno incaricato esperti e tecnici di lavorare insieme sui dettagli. Quando Kerry e Lavrov si sono visti a Ginevra il 13 settembre scorso, dopo la tempesta, i loro sherpa avevano già alle spalle cinque riunioni di questo tipo. “Di conseguenza, ciò che di solito avrebbe richiesto settimane, è avvenuto in pochi giorni”.

Categorie:Barack Obama, Politica estera

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