Short Cuts America: il blog di Arnaldo Testi

Politica e storia degli Stati Uniti

«A history that doesn’t go away»: Obama, la razza e la storia

obamahoodieL’aveva già detto nel più articolato, complesso, profondo discorso del marzo 2008 – il discorso sulla razza, quello intitolato For a More Perfect Union. Lo ha ripetuto dell’intervento dell’altro giorno, inaspettato ma non improvvisato, nella sala stampa della Casa bianca – l’intervento sul caso di Trayvon Martin, sulla conclusione del processo a George Zimmerman, sulla pena e la rabbia nella comunità afro-americana. Come nel 2008, e più di allora, ha usato l’esempio della sua esperienza personale, della sua vita, per ragionare sul peso della storia. Per dire ancora una volta che il passato degli afro-americani, «una storia che non se ne va», è cruciale per capire le loro reazioni a questo evento – che da loro non è visto, non può essere visto come un singolo specifico episodio, bensì come l’ennesima conferma dell’esistenza di pregiudizi sociali e istituzionali contro di loro.

Le esperienze individuali di Obama e di milioni di altri si accumulano, si fondono e diventano storia, il filtro della storia, la lente della storia attraverso cui si guarda al presente. Dice il presidente: «Trayvon Martin avrebbe potuto essere me 35 anni fa». Dice: «Ci sono davvero pochi maschi afro-americani in questo paese che non abbiano avuto l’esperienza di essere seguiti mentre facevano shopping in un grande magazino. E’ successo anche a me. Ci sono davvero pochi maschi afro-americani che non abbiano avuto l’esperienza di attraversare la strada e sentire il click delle serrature che si chiudono nelle portiere delle macchine. E’ successo anche a me – almeno prima di diventare senatore». E così via. Inoltre: «La comunità afro-americana sa bene che c’è una storia di disparità razziali nell’applicazione delle leggi penali – dalla pena di morte ai reati per droga». E ciò conta nell’interpretazione degli eventi.

Naturalmente la storia è complessa per tutti. Obama ricorda che i giovani maschi neri sono, più di altri, sia vittime che perpetratori di violenza, che le statistiche lo dimostrano, che statisticamente qualcuno come Trayvon aveva più probabilità di essere ucciso «da un suo pari che da qualcun altro». Gli afro-americani sanno che questa è una loro tragedia, che a loro spetta affrontarla, senza scusanti. Tuttavia sono frustrati – perché chi ne parla da fuori ignora il contesto storico. «Sono convinti che parte della violenza nei quartieri neri poveri derivi dal passato molto violento di questo paese, e che la povertà e i problemi che vediamo in quelle comunità possano essere ricondotti a una storia molto difficile». Succede così che i loro figli siano ridotti a stereotipi negativi, e maltrattati. Sono convinti che, se al posto di Trayvon ci fosse stato un bianco, tutto sarebbe andato diversamente.

Obama usa la straordinaria visibilità e autorità della carica presidenziale (il bully pulpit, come lo chiamava Teddy Roosevelt) per riflettere in pubblico, per fare «soul-searching» sui problemi scottanti del presente. Invita gli americani a chiedersi, con parole alla Martin Luther King, «faccio tutto il possibile per prendere le distanze dai miei pregiudizi? Faccio il possibile per giudicare le persone non dal colore della pelle ma dal contenuto del loro carattere?» Il possibile, non l’impossibile. Perché, dice, la società è tutt’altro che post-razziale, il razzismo tutt’altro che estirpato. Anche se, non può non aggiungere, ci sono stati grandi progressi nello storico viaggio verso una «unione più perfetta» – non perfetta, ma migliore. Obama cerca di esercitare leadership politico-morale, non immediatamente operativa (su eventuali policies da adottare è assai vago). Questo è normale, l’hanno fatto molti presidenti nel Novecento, l’aveva fatto Lincoln.

E tuttavia Obama si trova in una posizione particolare, e particolarmente difficile. Vuole educare la nazione su come una sua frazione specifica veda il mondo, interpreti la storia, si senta discriminata. Ma questa frazione è quella a cui egli stesso appartiene. Ciò è inusuale, e tocca corde sensibilissime. F.D. Roosevelt, negli anni 1930s, invitava a riflettere sulle difficoltà del forgotten man alla base della piramide sociale; ma parlava con aristocratica generosità di altri più sfortunati di lui. D’altro canto Kennedy, da primo presidente di una minoranza cattolica guardata con sospetto, fece di tutto per non identificarsi con essa. Obama, da primo presidente nero, ha cercato di seguire l’esempio kennedyano e di stare alla larga dalla questione razziale. Quando non l’ha fatto, si è esposto all’accusa inevitabile di non essere il presidente di tutti. Ad articolare l’accusa sono i conservatori. Ma è certo che a pensarla così, in una società che sente il peso della sua storia, siano in molti di più.

Categorie:Barack Obama, Cultura politica, sistema giudiziario, violenza

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