Giovedì 5 maggio 2022, presso il Dipartimento di civiltà e forme del sapere dell’Università di Pisa, abbiamo discusso con Maya De Leo del suo libro Queer. Storia culturale della comunità LGBT+ (Einaudi, 2021). Alla discussione, organizzata da Michele Di Donato e moderata da Gian Luca Fruci, hanno partecipato Vinzia Fiorino, Carlotta Ferrara degli Uberti e il sottoscritto. Qui sotto copio gli appunti per alcuni dei miei commenti, quelli meno sconclusionati, comunque rimessi un po’ in ordine.
Che cosa dire a Maya De Leo che non le sia ancora stato detto nel tour da rockstar con cui ha portato il suo libro in giro per il paese? In generale, che cosa dire di più definitivo di questo: è un libro che mancava, che doveva esserci, che prima non c’era, e che ora c’è. Un libro che probabilmente nel nostro paese solo Maya poteva scrivere, e che comunque solo Maya ha scritto. Un libro di cui possiamo dire con qualche vanto che qui, in questo Dipartimento, ha avuto certe sue radici, nella formazione intellettuale e storiografica dell’autrice. Un libro che deriva dall’insegnamento nel primo corso di “Storia dell’omosessualità” in una università italiana, e qui il vanto spetta all’Università di Torino.
Un libro di ottima lettura. Con questo voglio dire che è costruito sull’accumulo di una attività collettiva di ricerca che è vasta e matura (di due generazioni di storici, direi a questo punto), il che rende il testo stesso maturo, e scritto molto bene. Cioè, la buona scrittura è senza dubbio un talento personale dell’autrice (o ce l’hai o non ce l’hai), ma credo che qui sia favorita da due cose: dalla sua totale padronanza della scienza e dalla maturità della scienza stessa. Le due cose insieme rendono possibile offrire analisi serie e complesse e sofisticate con un linguaggio coinvolgente, un linguaggio che è (e dimostra di poter utilmente essere) estraneo a gerghi da nicchia. Una cosa che personalmente ho apprezzato molto, essendo io un lettore laico, non un praticante della storia queer, e neanche più, da un po’ di tempo, della gender history in quanto tale.
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Negli anni Settanta e anche Ottanta le nuove storiografie di women’s studies, di gender studies e poi di quelli che allora si chiamavano gay studies oppure gay and lesbian studies, suscitavano (com’è ovvio che accada) sia entusiasmi militanti che resistenze da parte dell’ancient régime.
Nelle spinte militanti c’era la passione per la giustizia e la scoperta di sé, e poi l’eccitazione della scoperta storiografica, della prima volta, da absolute beginners. Ricordo quanto diceva nel 1977 Blanche Wiesen Cook (che poi scrisse una gigantesca biografia in tre volumi di Eleanor Roosevelt). Stava studiando i carteggi di un network di suffragiste americane dell’inizio del Novecento, era interessata alle conversazioni politiche; “tutte le volte che trovavo una lettera d’amore annotavo ‘lettera d’amore’ e andavo avanti”. Finché non ebbe l’illuminazione: scoprì che quello era un combustibile che faceva andare avanti l’impresa. Molte di quelle donne vivevano in stabili coppie femminili, formavano Boston marriages (come si diceva su ispirazione del titolo del romanzo di Henry James, Le bostoniane). Quei rapporti intimi “d’amore” tenevano in piedi il movimento, lo stabilizzavano almeno a livello di leadership. Erano rapporti lesbici, omoerotici, affettivi omosociali? Chissà, non sempre era possibile chiarire – e tuttavia era davvero importante chiarirlo?
Dall’altra parte c’era la vecchia guardia della professione, la cui reazione era più spesso che no, nelle discussioni formali come in quelle di corridoio – “So what?”. E allora? Ora che so che ci sono le donne e i gay , che cosa so di più della Rivoluzione francese o del New Deal? Erano domande provocatorie, che tendevano a sminuire l’importanza delle novità. Ma erano anche domande provocanti, perché incalzavano la ricerca: state facendo storia identitaria o militante che riguarda solo voi? State facendo storia compensatoria, che aggiunge qualcosa ma non cambia la comprensione complessiva della storia? Siete una piccola sub-disciplina con un linguaggio incomprensibile, da iniziati? O siete un approccio storiografico, un taglio storiografico rilevante per tutti noi?
Bene, a me sembra che questo libro di Maya, per il modo in cui è impostato, per come è organizzato, per lo stile della narrazione, sia ovviamente quello che dice di voler essere, cioè una bella e appassionata e nuova“storia culturale della comunità LGBT+”. Ma anche che racconti una storia di tutti, rilevante per tutti,necessaria per chiunque si occupi di storia contemporanea. Questa è un pezzo di storia del nostro tempo, in particolare del nostro lungo Novecento. Ed è una storia autorevole, scritta con voce autorevole. Una storia che non ha bisogno di rivendicare la propria validità, la propria esistenza. Una storia che – e non so se questo sia considerato un complimento oppure no, lo dico per vedere l’effetto che fa – ha la passione ma non il linguaggio della storia militante.
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Da storico politico-sociale e da storico americanista (c’è un sacco d’America in queste pagine, un po’ perché lì sono successe cose importanti, un po’ perché la storiografia locale le ha indagate forse più che altrove), vorrei fare una lode speciale. Vorrei lodare in modo speciale tutta la parte del libro che gira intorno alla rivolta di Stonewall Inn, il 28 giugno 1969 a Manhattan, nel West Village. E’ una parte sostanziosa del testo, un intero capitolo che tracima facilmente nel capitolo successivo, e della rivolta rintraccia tutte le possibili radici, tutti i possibili fili di significato, il significato complessivo di data periodizzante, l’impatto immediato e di lungo periodo a molteplici livelli.
Data periodizzante lo è da subito, per gli stessi partecipanti. Maya ricorda come proprio nel mezzo degli eventi di quei giorni qualcuno li esalta come “The hairpin drop heard around the world”, la caduta di una spilla, di una forcina per capelli udita in tutto il mondo. Con ciò ricalcando e distorcendo il celebre verso del poeta ottocentesco Ralph Waldo Emerson che evoca l’inizio della guerra di indipendenza, il primo scontro armato fra le milizie dei coloni e l’esercito britannico, e quindi il primo colpo di fucile della Rivoluzione americana: “the shot heard around the world”, appunto, il colpo udito in tutto il mondo. Il fantasma della Rivoluzione è sempre dietro l’angolo, fuori dal tempo.
Tutta questa parte del libro è davvero esemplare per complessità, raffinatezza e chiarezza di analisi, un vero piacere, una lettura illuminante. Racconta quanto ci sia di “politica generale” che investe tutta la comunità nazionale in quella rivolta di strada e nei suoi sviluppi, quelli positivi per la comunità LGBT+ e quelli negativi di reazione conservatrice che si manifestano entrambi alla grande negli anni successivi. Perché, come giustamente sottolinea Maya, non c’è un “percorso lineare” di progresso in queste faccende. Non c’è mai, in effetti.
Ed è così che negli anni Settanta – e questa è una storia ben più nota – temi di genere e sessualità, di diritti civili e diritti riproduttivi legati ai femminismi della seconda ondata e ai nascenti movimenti gay & lesbian, plasmano l’agenda politica di tutto il paese. Da una parte i gay rights entrano nel programma elettorale del partito Democratico. Dall’altra sono macinati nelle “guerre culturali” dei movimenti conservatori di massa confluiscono nella rivoluzione conservatrice di Reagan. Da una parte ci sono le prime esperienze di persone pubbliche in politica dichiaratamente gay, una delle quali finisce in tragedia: l’assassinio del consigliere comunale Harvey Milk a San Francisco nel 1978. Dall’altra ci sono i movimenti anti-gay animati da donne come Anita Bryant e dal suo appello a “Save the Children”.
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Vorrei toccare due altri e correlati punti della storia di Maya, e con questo avviarmi a chiudere le mie rapide riflessioni. Punti che evocano eventi recenti, che aiutano a metterli in contesto storico. E che riguardano l’uso pubblico, politico, da parte di soggetti politici o statuali, di temi, immagini, discorsi che hanno a che fare con l’omosessualità.
Penso, tanto per cominciare, all’accusa di omosessualità come scare tactics, tattica di paura, tecnica di terrore politico-ideologico contro singole persone, gruppi, movimenti. Maya ne ricorda parecchi casi, un po’ in tutte le culture politiche, in tutti i paesi, in tutti i regimi del nostro mondo. Nel secondo dopoguerra c’è l’immaginario antifascista e antinazista che identifica omosessualità e lesbismo con certi comportamenti nazisti. Nella Russia di Stalin si criminalizza l’omosessualità come “perversione fascista” e come “anomalia sociale”; si fanno processi-farsa, epurazioni e deportazioni nel gulag; lo scrittore Maksim Gorkij dice (questa non la sapevo), “sterminate gli omosessuali e il fascismo scomparità”. Nell’America maccartista la lavender scare vede i gay come un anello debole della sicurezza del mondo libero contro la minaccia sovietica, identifica l’omosessualità con il “tradimento politico”, la definisce “la bomba atomica di Stalin”.
C’è cinica propaganda in tutto questo. Nel caso americano degli anni Cinquanta c’è l’idea che singole persone queer possano essere esposte al ricatto (per il loro “vizio segreto” che non può dire il suo nome) e quindi costrette a diventare spie del nemico. Ma c’è anche, a un livello più generale, una preoccupazione per molti versi genuina che riguarda l’intera società, l’intero ordine sociale che si ritiene debba essere fondato sulla famiglia eterosessuale e che quindi sia minacciato dai comportamenti rivelati dai rapporti Kinsey e da altre indagini, comportamenti devianti e pericolosi soprattutto per la gioventù, contro cui si invitano censure sui media giovanili, fumetti (l’affaire Batman & Robin**), pulp fiction, cinema – e terapie riparative.
Come non pensare alle parole che abbiamo sentito di recente da parte della leadership della Russia, politica e religiosa, sulla necessaria lotta per difendere (anche in maniera brutale) la società tradizionale russa dalla minaccia delle “libertà gender” e delle “parate gay”? Una minaccia predicata e indotta dal corrotto mondo occidentale. Come non ricordare una scena un po’ più datata, quella del presidente iraniano Mahmud Ahmadinejad in visita a New York per una assemblea dell’Onu nel settembre 2007? Quando invitato a parlare agli studenti di Columbia University a domanda risponde, con poker face serissima, “in Iran non abbiamo omosessuali, a differenza del vostro paese”. Facendo venire giù il teatro dalle risate.
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Ciò mi porta all’ultimissima considerazione. Maya è molto attenta a collocare la sua ricerca all’interno dell’Occidente europeo e nordamericano, e quando ne esce evidenzia bene che lo fa attraverso sguardi occidentali sul resto del mondo. Per esempio nelle molte pagine che dedica alle “geografie dell’alterità” nel primo trentennio del Novecento. Sono sguardi occidentali che individuano la mancanza di ripugnanza per l’omosessualità, la presenza casuale e non problematica di pratiche omoerotiche in certe “razze” e culture non-europee come indicatori della loro inferiorità. Naturalmente per lo sguardo omosessuale occidentale questi sono anche motivi di attrazione, segnalano luoghi del desiderio, “paradisi omosessuali” comunque vissuti all’interno di rapporti di potere asimmetrici, talvolta predatori: il Nord Africa, ma anche l’Europa del Sud (Italia e Grecia) per gli europei settentrionali, Harlem in Nord America.
Entrambi questi sguardi sono com’è ovvio parte costitutiva del paradigma coloniale, gerarchizzante, razzializzato, imperialista dell’età dell’imperialismo. Ma è sorprendente come quel paradigma, in certi contesti, in certi momenti, sia usato oggi allo stesso modo, con immutata struttura ma in maniera rovesciata nei contenuti… Voglio dire, certi giudizi contemporanei, a volte smaccatamente propagandistici e altre volte invece no, genuinamente preoccupati, sembrano suggerire come indicatori dell’inferiorità di certi popoli e culture (di nuovo, non-europee) non più la tolleranza bensì la loro intolleranza nei confronti dell’omosessualità.
Una intolleranza che magari appartiene ai regimi politici, o a certi ambienti radicali, più che davvero alle “culture” dei popoli? Su questo vorrei saperne di più dall’interno stesso di quelle culture, in prospettive analitiche magari non dipendenti dalla storiografia queer come si è sviluppata in Occidente, se qualcosa del genere esiste. Posso immaginare che ci siano belle storie che io non conosco e voi invece sì. Nelle ultime pagine del libro Maya allude a un “orizzonte comunitario transnazionale” della comunità LGBT, alle annuali celebrazioni del Pride che si svolgono “contemporaneamente nelle diverse parti del mondo”… Quando? A giugno – in una data di origine yankee? In una occasione festiva di origine occidentale? Si svolgono davvero in tutto il mondo e hanno avunque lo stesso significato, in sé e rispetto alle culture locali? Ne sappiamo qualcosa?
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**Postilla. A proposito di censure, mi piace citare la polemica contro i fumetti di Batman, in cui il rapporto fra Batman e il suo sidekick Robin, e tanto più la vita in comune da coppia omosociale delle loro persone reali (reali nel fumetto intendo), Bruce Wayne e Dick Greyson, sono viste e denunciate come “il sogno che si avvera di due omosessuali che vivono insieme”. Francamente ero convinto che simili analisi dei testi batmaniani fossero fatte con il senno del poi, in tempi successivi. Ero rimasto alla lettura camp degli anni Sessanta, ricordata anche da Maya. Invece scopro qui che la prima fonte è un serissimo psicologo nel 1953, nel bel mezzo della faccenda. Mi salta anche agli occhi che il nome di Dick Greyson, Dick, è una parola che nel linguaggio di strada indica il membro maschile. Chissà se c’entra qualcosa.
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