Short Cuts America: il blog di Arnaldo Testi

Politica e storia degli Stati Uniti

Le pene del muro di Trump

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All’inizio di febbraio l’amministrazione Trump ha comunicato al Congresso che, per innalzare alcuni pezzi di muro lungo il confine con il Messico, il dipartimento della difesa rende disponibili quasi 4 miliardi di dollari sottratti ad altri settori di spesa. Insomma, risparmiando su altri impegni. E suscitando un vespaio, l’ennesimo vespaio di una storia molto accidentata e, viene da pensare, piuttosto dolorosa per il presidente.

La lotta per i finanziamenti era cominciata da subito, non appena The Donald era entrato alla Casa bianca. Con un ordine esecutivo aveva avviato il suo pet project, il suo rallying cry mobilitante, la firma della sua identità politica – lo sviluppo e il completamento del beautiful wall. Ma la scarsità di soldi lo aveva frenato. Il Congresso gli aveva concesso la miseria di neanche un miliardo e mezzo, lui ne voleva più di cinque. La minaccia di non approvare il bilancio, provocando lo shutdown del governo, e poi la dichiarazione di emergenza dell’anno scorso non lo hanno aiutato molto. Alcuni giudici si sono opposti alla disinvoltura con cui, aggirando il consenso dei legislatori, aveva cercato di trasferire risorse da uno scopo a un altro, da un ministero all’altro. Perché non è proprio legittimo farlo, dal momento che è la Camera ad avere il controllo politico dei cordoni della borsa, “the power of the purse” perbacco. Ma poi altri giudici glielo hanno consentito. E quindi, infine, sembra che ci sia riuscito, almeno in parte, con parecchie difficoltà anche con i deputati del suo stesso partito (c’è chi è infelicissimo perché le spese risparmiate avrebbero dovuto essere investite in imprese nel suo collegio elettorale).

Vedremo come andrà finire, perché la storia continuerà a essere accidentata.

La promessa elettorale di Trump era di costruire 500 migliadi muro entro il 2020. Ora il 2020 è arrivato, e anche le nuove elezioni presidenziali sono qui, ma è stato realizzato pochissimo, quasi niente: solo il restauro di un centinaio di miglia. Dove le barriere esistenti anti-uomo o anti-veicolo erano vecchie e dilapidate. E dove sorgevano su terreni del demanio federale.

La mancanza di fondi è stato solo uno dei problemi.

Per esempio: una cosa è lavorare sui terreni federali di cui il governo ha piena disponibilità, un’altra lavorare sui tanti terreni privati che, per tantissime miglia, sono adiacenti al confine. Soprattutto in Texas. I proprietari non sempre sono contenti. Naturalmente possono essere espropriati dietro compenso per interesse o utilità pubblica (eminent domain), ma appunto ci vogliono risorse per farlo, e poi le procedure sono lunghe, magari si va per tribunali,  si tira sul prezzo, si chiedono compensi più vantaggiosi. Di casi giudiziaricosì ce ne sono centinaia, e in effetti predatano l’arrivo di Trump. C’è anche chi è subito disponibile per ragioni politiche, e c’è stato chi si è offerto di costruire un pezzo di muro a proprie spese, e l’ha anche fatto, pochi metri, prima di essere bloccato da una ingiunzione giudiziaria (l’associazione privata “We Build the Wall”). A volte anche chi si oppone in tribunale lo fa per ragioni politiche, spera di prendere tempo, che cambi qualcosa, magari che arrivi una nuova amministrazione.

Una ragione di scontento è strutturale, non ci si pensa di primo acchito ma è difficile da eliminare. Può succedere infatti che la barriera, per varie ragioni, debba essere costruita non proprio sulla linea di confine ma un po’ dentro il territorio statunitense, tagliando in due le proprietà frontaliere. Soprattutto in Texas dove il confine è sul Rio Grande, le fattorie rivierasche finiscono per essere separate dal grande fiume, per perderne la vista e l’accesso, per essere costrette a costruire passaggi e cancelli e a diventarne custodi. E la gente del posto sa bene come vanno queste cose: una volta costruita la barriera, a sud di essa accade di tutto, anche in ciò che tecnicamente continua a essere America. “Una volta innalzato il muro, quello diventa il nuovo confine”.

Anche nelle terre del demanio federale non tutto fila liscio. Naturalmente l’Arizona non è Roma dove, ovunque si scavi, si trovano reperti antichi che rallentano o bloccano i lavori. Ma anche l’Arizona mica è terra vergine, aveva una vita e una storia prima di essere Arizona, prima di essere Stati Uniti, prima di essere Messico, prima di essere Nuova Spagna. E così è appena accaduto che la costruzione del muro, in uno dei pochi luoghi in cui procede, minacci un sito ecologico e archeologico dell’Unesco, l’Organ Pipe Cactus National Monument, che comprende un’area di sepoltura dei guerrieri Apache e una meta di pellegrinaggi della nazione Tohono O’odham – luoghi fuori dalle riserve indiane ma sacri ai nativi nondimeno. Ci sono proteste e indagini in corso.

E infine c’è la faccenda dell’indomabile natura umana. Anche là dove il muro più moderno ha sostituito quello vecchio, l’ostacolo è ridicolo. Quali sono i modi migliori di superare un muro nuovo nuovo da milioni di dollari? Almeno due. Il primo consiste in una scala da 99 pesos al locale Brico, lato messicano. E’ l’ultima voga, va a ruba. In tondino di ferro, si aggancia al bordo superiore della barriera, si mette e toglie in un attimo, è leggera e ha quel colore rugginoso che la mimetizza perfettamente, da lontano neanche si vede. Il secondo modo è fare affidamento sulla natura del deserto. Tempeste di vento, violente piogge improvvise, flash floods abbattono periodicamente pezzi di palizzata che fanno vela o bloccano lo scorrere libero e selvaggio delle acque e dei detriti. Si aprono varchi, alcuni aperti dagli stessi operatori per evitare guai peggiori. E chi vuole attraversare il confine sa benissimo dove si trovano.

 

Categorie:nazionalismo

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