Short Cuts America: il blog di Arnaldo Testi

Politica e storia degli Stati Uniti

New York gay: una storia

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Drag Ball in Webster Hall, East Village, Manhattan, 1920s

A proposito del libro di George Chauncey, Gay New York: Gender, Urban Culture, and the Making of the Gay Male World, 1890-1940, Basic Books / Hachette, 2019 (ma qui letto nella prima edizione del 1994, uscita in occasione del 25esimo anniversario della rivolta di Stonewall; l’edizione 2019 – cinquantesimo anniversario – contiene una nuova prefazione).

Conviene cominciare a leggere questo libro dalla nota sulle fonti, per valutare la complessità della ricerca che ne è alla base, ma anche per coglierne l’originalità e il fascino, qualità che gli sono valsi il riconoscimento sia dell’accademia che di lettori meno specialistici. Il problema di George Chauncey (che oggi insegna storia americana alla Columbia University, dove dirige la Columbia Research Initiative on the Global History of Sexualities) è duplice ed è insieme molto spinoso e molto attraente. Da una parte si tratta di ricostruire le vicende di individui e gruppi che, come gli omosessuali, hanno cercato di rendersi invisibili, di sottrarsi all’occhio ostile delle autorità e del pubblico, lasciando meno tracce possibili della loro esistenza e quindi, si suppone, poche fonti sulle quali lo storico possa lavorare. Dall’altra si tratta, o meglio soprattutto si trattava negli anni Novanta, quando del libro uscì la prima edizione, di superare l’ostilità della stessa comunità degli storici che, in effetti, quelle fonti non le ha mai cercate, ritenendo che occuparsi di simili faccende fosse ininfluente, imbarazzante, e dannoso per la carriera.

Nell’ultimo quarto di secolo le barriere politico-culturali nella professione si sono incrinate, e ciò ha favorito la pubblicazione di parecchi studi di gay history e lesbian history, all’inizio quasi tutti concentrati sulla seconda metà del Novecento, e basati su fonti di storia orale oltre che sulla ricca documentazione prodotta, dagli anni Sessanta in poi, dal movimento gay militante. Cadute le preclusioni si è scoperto che, per ciò che riguarda l’età contemporanea, le fonti esistono anche per periodi storici immediatamente precedenti, basta avere la curiosità, l’immaginazione e la pazienza necessarie. E le fonti esistono per almeno due motivi: in primo luogo, perché è difficile per chiunque nascondersi davvero alle moderne istituzioni di controllo della vita sociale, ma anche perché, in secondo luogo, non sempre gli omosessuali hanno ritenuto di doversi nascondere. Questo di Chauncey su New York City è stato il primo libro di storia sociale dedicato alle comunità gay maschili nel periodo precedente la seconda guerra mondiale, ovvero nel periodo compreso fra gli anni Novanta dell’Ottocento e gli anni Trenta del Novecento.

Come spesso accade, i cronisti più fedeli della vita degli omosessuali sono stati i loro nemici. La sodomia era un reato, punito duramente, e quindi interessava polizia e tribunali. Gli archivi del New York Police Department (NYPD), come quelli di altri dipartimenti di polizia, non erano aperti ai ricercatori, ma quelli del District Attorney di Manhattan sì, e hanno permesso a Chauncey di selezionare le filze di circa 200 processi fra il 1880 e il 1950, di alcuni dei quali sono rimasti i verbali integrali. Per esempio, le trascrizioni di otto processi per sodomia seguiti al raid della polizia contro gli Ariston Baths nel 1903, e terminati con condanne da 4 a 20 anni di carcere, hanno consentito di avere un quadro preciso della struttura del celebre ritrovo, delle attività specifiche che si svolgevano nelle varie aree, e del tipo di clienti che li frequentava. Negli archivi delle magistrature inferiori sono stati rintracciati i casi relativi ad accuse meno gravi di «degenerate disorderly conduct», che in genere riguardavano comportamenti in strada e nei parchi. Dagli archivi della State Liquor Authority sono emerse le cause intentate per revocare le licenze di vendita ai bar troppo ospitali verso la clientela gay.

Le istituzioni pubbliche erano dunque molto attive, e in effetti intensificarono le attività dopo gli anni Ottanta dell’Ottocento. Fra la fine del Settecento e il 1873 ci furono a New York City 28 processi per sodomia; negli anni Novanta ce ne furono alcune decine ogni anno, che salirono ad almeno un centinaio dopo il 1920. Una delle ragioni di questo rinnovato zelo era che, laddove la polizia si fosse distratta, ci pensavano i privati a stimolarla. Le organizzazioni per la riforma morale della vita urbana, che fiorirono fra il 1890 e il 1930, non avevano come finalità specifica una battaglia contro le pratiche omosessuali, e tuttavia finirono con l’occuparsene lottando contro prostituzione, abuso di alcool, altri vizi. I loro agenti frequentavano i luoghi del sottomondo fingendosi clienti, e riferivano ciò che avevano visto, e dove, in brevi schede. Il linguaggio di queste schede è «scientifico», e non privo di comicità quando gli agenti parlano di sé usando nomi in codice (in un bar di travestiti «B e 5 hanno chiesto ad alcuni avventori dove era possibile incontrare delle donne, ma non ne hanno cavato niente»), o quando concludono sottolineando che la loro permanenza nel locale è stata brevissima, per l’amordidio,  e l’uscita frettolosissima. Una volta espletato il pio compito della ricerca sul campo.

Insomma, questi archivi forniscono il catalogo più dettagliato e raffinato degli orrori urbani di New York, e dei luoghi dove goderne, che sia stato scritto.

I rapporti di polizia sono, come tutte le fonti, carichi di pregiudizi nel modo di raccontare gli eventi, ma anche nel modo di crearli, di inventarne i protagonisti. Per ovvii motivi di classe, la polizia, sia il NYPD che la polizia morale del ceto medio bianco, se la prendeva con i vizi dei più deboli, e conduceva i suoi raid e le sue «inchieste» nelle aree working-class di Manhattan, non in quelle middle-class. Per ovvii motivi di razza, e con un bel paradosso, ignorava invece del tutto gli afro-americani, partendo dal presupposto che di gente primitiva si trattasse, immorale per natura, impossibile da redimere, comunque segregata, lontana dagli occhi. Il risultato di questa politica selettiva di ordine pubblico è piuttosto squilibrante per lo storico. Per il periodo compreso fra il 1890 e la prima guerra mondiale, per esempio, Chauncey è in grado di documentare i costumi pubblici e privati degli omosessuali nei quartieri operai soprattutto italiani e irlandesi, molto meno quelli dei neri, quasi niente quelli del ceto medio.

Chauncey sottolinea una scoperta importante della sua ricerca, e cioè l’esistenza, almeno nelle zone dei divertimenti più popolari, nella Bowery, nell’adiacente Little Italy, in alcuni parchi, di una vita gay piuttosto aperta, per certi versi sfrontata, per altri del tutto commercializzata, entro certi limiti accettata. Non è chiaro tuttavia, se questa sfrontatezza popolare debba contrapporsi a una più silenziosa privacy omosessuale borghese, o più semplicemente al silenzio della polizia, e quindi delle fonti, sull’argomento. Si sa con certezza che dalla fine dell’Ottocento in poi individui e gruppi di residenti dei quartieri alti, uomini e donne, scendevano di notte nei locali dei quartieri malfamati, soprattutto in quelli che promettevano spettacoli formali o informali di travestiti, di «prostituti» e di «finocchi» (come cita in italiano un investigatore nel 1901). Si sa con altrettanta certezza che, se e quando questi signori venivano intercettati da una retata della forza pubblica, si dava per scontato che fossero là per dare un’occhiata, non certo come clienti. Praticavano, si diceva, lo sport cinico ed eccitante dello slumming, del turismo negli slum esotici dell’emigrazione, della povertà e del sesso a pagamento.

E’ con il primo dopoguerra, soprattutto, che nuove fonti si sommano a quelle di polizia, e permettono di costruire un quadro meno squilibrato.

Le nuove fonti sono di due tipi, e il primo, il più sorprendente, è costituito dai giornali. Il serio e serioso «New York Times» degli anni Venti e Trenta non ha niente da dire in proposito, ma altri periodici (giornali di quartiere, fogli di pettegolezzi, riviste di spettacolo, tabloid scandalistici) sono meno reticenti, e sembrano mettere in discussione il mito della invisibilità degli omosessuali. Documentano in effetti l’esistenza di un mondo gay di ceto medio, che in precedenza era, si può supporre, o inesistente o nascosto, e di una nuova mappa della città. Dagli anni Venti, i giornali di Harlem raccontano della «sporting life» afro-americana, la più brillante e sfrenata della città, capace di richiamare l’attenzione di tutti, bianchi e neri, omosessuali ed eterosessuali. Al celebre ballo mascherato invernale della Hamilton Lodge (un club fraterno afro-americano con sede sulla 155esima strada), che era un ballo per travestiti («the masculine women and feminine men, how are you going to tell the roosters from the hens?»), partecipavano diverse migliaia di persone di tutte le razze, centinaia di drag queens proletarie nere (modelli preferiti: Jean Harlow, Gloria Swanson, Mae West, Greta Garbo), intellettuali della Harlem Renaissance e radicali del Greenwich Village. C’erano anche, per dire, i poeti comunisti Claude McKay e Langston Hughes.

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Negli stessi anni, i periodici del Greenwich Village parlano della formazione, all’interno della bohéme artistica e politica che si era insediata nel quartiere e in qualche modo da essa protette, di comunità omosessuali di «uomini dai capelli lunghi» e «donne dai capelli corti». Con appuntamenti culturali e mondani, caffè e ristoranti, e i più famosi cessi della metropolitana. C’erano drag balls (notissimi quelli di Webster Hall) e c’erano bar di e per lesbiche (la sala da tè di Eve Adams, pseudonimo androgino dell’ebrea polacca Eva Kotchever, autrice del libro Lesbian Love, aveva sulla porta la scritta «Men are admitted but not welcome»; il locale fu chiuso dalla polizia nel 1926 e la proprietaria espulsa dal paese). I periodici del mondo dello spettacolo come «Variety» recensiscono show di Broadway con temi omosessuali, e riferiscono dell’assidua presenza dei gay all’opera, ai concerti di Judy Garland, nei bar intorno a Times Square, e alle gare di bellezza maschile sulla popolare spiaggia di Coney Island, a Brooklyn. Un foglio di pettegolezzi come «Broadway Brevities» è il più esplicito nel pubblicare vignette satiriche sull’ambiente e nel disegnare una geografia gay della città, con i luoghi di incontro e di cruising (Riverside Drive, Quarantaduesima strada, Central Park, Battery Park, Bryant Park dietro la New York Public Library, insomma ovunque).

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Eva Kotchever (“Eve Adams”) a destra, con un’amica, negli anni 1920s

Una seconda fonte disponibile per gli anni Venti e Trenta è costituita dalle testimonianze dirette. Si tratta in alcuni casi di testimonianze scritte, per esempio di lettere e diari conservati presso biblioteche universitarie e centri di ricerca come il celebre Kinsey Institute for Research in Sex, Gender, and Reproduction della Indiana University a Bloomington; oppure di diari inediti ottenuti in visione da privati. Il diario che il compositore Charles Tomlinson Griffes tenne negli anni dieci, dopo essere tornato da Berlino dove aveva studiato musica, e dove era venuto in contatto con il movimento tedesco per i diritti degli omosessuali guidato da Magnus Hirschfeld, permette di ricostruire dall’interno, per esempio, la rete dei luoghi di ritrovo della New York di allora e di capire la funzione che i bagni russi e turchi della città avevano come centri sociali e sessuali. Vi si facevano incontri interessanti. E’ ai Lafayette Baths che il giovane musicista Griffes incontra, alla fine del 1916, il nuovo manager dello stabilimento, destinato alla fama nel suo stesso campo, la musica, e cioè l’ebreo russo Israel Gershowitz più noto come Ira Gershwin, il fratello più giovane e collaboratore di George Gershwin.

Altre testimonianze scritte sono edite, e famose. Basti pensare ai Memoirs del commediografo Tennessee Williams, che intorno al 1940 batteva l’area più calda della città gay di allora, Times Square, con un’amico alla ricerca di marinai e soldati in libera uscita («Mi fissavano per un momento con stupore, scoppiavano a ridere, si ritiravano per parlarne fra loro e, più spesso che no, accettavano la proposta e andavamo nell’appartamento del mio amico al Village o nella mia stanza al YMCA»). Nella stragrande maggioranza dei casi, tuttavia, le testimonianze più importanti, e in effetti decisive per alcune parti di questo studio, sono quelle orali. La base-dati di fonti orali sulla quale Chauncey fa affidamento è formata da circa settantacinque interviste, quasi tutte da lui stesso condotte, parecchie delle quali raccolte a Cherry Grove, una comunità in prevalenza gay e benestante su Fire Island (Long Island). Questi documenti forniscono prospettive in prima persona che danno non solo preziose informazioni, ma anche spessore esistenziale e vividezza personale alla vita gay metropolitana. Forniscono anche, data la loro origine, un punto di vista middle-class che non esiste per il periodo precedente la prima guerra mondiale.

Le fonti condizionano la ricerca in altri modi, che vanno oltre l’importante questione della periodizzazione e della diversa composizione sociale alla quale ho già accennato. Le fonti di polizia non possono che criminalizzare l’ambiente sul quale investigano, e i giornali (quelli di allora, almeno, anche i più simpatetici) non possono che banalizzarlo. Di conseguenza il mondo gay che emerge dalle pagine di Chauncey, per quanto liberato il più possibile dalle connotazioni poliziesche, moralistiche o salottiere degli osservatori, per quanto criticamente filtrato dalla sensibilità storiografica dell’autore, resta in gran parte un mondo di sesso commercializzato, comprato e venduto nelle strade o nei bordelli controllati dalla malavita, ovvero di sesso consumato casualmente. Resta un mondo di costumi sgargianti, di serate mondane, di linguaggio camp, di polsi mosci e marinai muscolosi. E va detto che, da questo punto di vista, non contribuiscono molto a cambiare il quadro neanche le testimonianze personali e orali, anch’esse piuttosto ossessionate dalla vita di strada, dai rituali del cruising, dal mito della performance.

Sembrano mancare da questo mondo i sentimenti, ma anche la violenza e i rapporti di potere. Al potere e alla violenza antigay, istituzionale o popolare, si allude quando è necessario (leggi e regolamenti, raid polizieschi, pesanti condanne, pestaggi di gang, spedizioni punitive di cittadini perbene), ma senza calcare troppo la mano. Del tutto a ragione, Chauncey non vuole descrivere gli omosessuali come vittime bensì come protagonisti della loro vita. Sono invece assenti i rapporti di potere, e di violenza, all’interno del mondo gay. O meglio, i segni di una microfisica del potere emergono qua e là, signori facoltosi che comprano prostituti minorenni, intellettuali borghesi che seducono giovani maschi immigrati (a New York il terzo mondo era di casa, non era necessario andare a cercarlo a Capri, in Sicilia, o nel Nord Africa, come facevano gli intellettuali europei). Ma questi segni sono lasciati a se stessi, non sono accompagnati dall’analisi, un fatto piuttosto sorprendente per un autore che cita con approvazione Michel Foucault. Il rischio di un simile atteggiamento è quello di inventare una realtà un po’ troppo idilliaca, poco drammatica, un po’ troppo «gaia».

Non è, con questo, che lo studio di Chauncey manchi di analisi, tutt’altro. La dimensione narrativa è brillante e sofisticata, ma lo è altrettanto quella analitica e problematica, che in effetti non poteva mancare in un libro che ha un titolo sexy, ma che concentra nel sottotitolo alcune delle parole-chiave del canone storiografico americano dei nostri anni («gender», «culture», e quel thompsoniano «the making of»). La prima osservazione in proposito riguarda il fatto che la ricerca si occupa di omosessuali maschi, e che questa storia è abbastanza diversa da quella delle donne lesbiche, e raramente la incontra. Ciò è dovuto, afferma Chauncey, alla differenza di ruoli e di potere che la costruzione sociale del gender attribuisce a uomini e donne, e quindi ai diversi atteggiamenti nei confronti della sessualità e alle diverse risorse in gioco. Il confine fra ciò che è «normale» e ciò che è «anormale» nei rapporti intimi, fisici ed emotivi, fra persone dello stesso sesso non si è formato allo stesso modo per uomini e donne. Inoltre, il fatto che entrambe le culture si basino sulla inversione dei ruoli di genere non crea di necessità comprensioni reciproche, solidarietà, sintonie; queste sono esistite solo nelle fantasie dei rigidi difensori della normalità eterosessuale e in alcune aree franche, e segregate, che appaiono omogenee solo a chi le osservi dall’esterno.

Ma soprattutto: in quanto uomini i gay hanno goduto comunque di più autonomia, disponibilità economiche, indipendenza dalla famiglia, e libertà di movimento delle donne, lesbiche o no che fossero. Storicamente, gli spazi pubblici urbani nei quali si è coagulata la scena omosessuale maschile sono in primo luogo spazi maschili tout court, come strade, parchi, bar, bagni pubblici, bordelli. Non a caso, in questi spazi le donne compaiono solo come prostitute, mentre gli uomini vi esercitano una molteplicità di ruoli che consente loro, fra l’altro, di confondere le acque, di nascondersi, di barare anche con se stessi. Possono infatti essere prostituti, travestiti, «finocchi», cercatori di incontri casuali, clienti (e i clienti del sesso commerciale, chiunque siano i fornitori, sono sempre e solo uomini) ovvero «normali» spettatori. Non a caso, una scena pubblica lesbica si è formata solo quando le donne in genere hanno conquistato maggiori diritti, per esempio negli anni Venti, almeno nel Greenwich Village.

Dunque, occorre distinguere fra lesbiche e gay. Ma anche quest’ultimo termine non può essere usato con troppa leggerezza: ha una storia interessante, e soprattutto nasconde in sé una storia ancora più interessante.

L’associazione della parola «gay» con una vita di peccato, piacere e abiti vistosi risale almeno al Settecento. Negli anni Trenta del Novecento, con un qualche paradossale rovesciamento di senso, del termine si appropriarono, per autodefinirsi, gli omosessuali che rifiutavano gli stili effeminati. Fu poi negli anni Quaranta che divenne abbastanza comune per indicare tutti coloro che avevano rapporti omosessuali di qualche tipo. Il cambiamento non è di poco conto, e segnala una riconcettualizzazione del comportamento omosessuale e del significato stesso di omo ed eterosessuale. Fino ad allora la principale distinzione culturale e linguistica sembrava avvenire sulla base non dei comportamenti sessuali bensì dei ruoli di genere. C’era l’omosessuale effemminato («fairy», «sissy», «pansy» e, fra gli afro-americani, «faggot»; o «flaming faggot» se proprio esagerava), quello più convenzionale («queer») e l’eterosessuale virile che accettava rapporti occasionali («trade»). Solo «fairies» e «queers» erano considerati anormali, mentre coloro che accettavano le loro proposte non perdevano la virilità, purchè avessere nel rapporto un ruolo maschile, cioè attivo. Anzi, si supponeva che i «fairies» preferissero come partner «uomini normali», «real men». E i «real men» non li disdegnavano affatto.

E’ dopo la metà del Novecento che tutti questi gruppi tendono a essere unificati sotto l’etichetta di gay, che sottolinea le somiglianze interne e la brusca rottura con l’esterno. Dopo di allora si può essere solo gay o «straight», e essere «straight» implica astenersi da qualunque intimità fisica con persone dello stesso sesso. Nel giro di una generazione, scrive Chauncey, «i confini fra l’omosessuale e l’eterosessuale erano stati tracciati così nettamente e pubblicamente che gli uomini non erano più in grado di prendere parte a un incontro omosessuale senza sospettare che ciò volesse dire essere gay (di fronte al mondo intero, e a se stessi)». Questo cambiamento, che definisce come nuova condizione della normalità una eterosessualità esclusiva, e che qualcuno ha chiamato «l’invenzione dell’eterosessualità», è avvenuto dapprima nel ceto medio e solo in un secondo tempo, abbastanza di recente, nelle culture popolari euro-americane e afro-americane.

Lo slittamento semantico coincide con un passaggio periodizzante nella storia contemporanea dell’omosessualità. Fino alla seconda guerra mondiale sembrava esistere, almeno a New York (una metropoli certo non rappresentativa dell’America del tempo, bensì accogliente e anonimo rifugio di eccentrici di ogni tipo in fuga dalla provincia), una vita gay complessa, vivace e tutt’altro che nascosta. Tutto ciò fu spazzato via da una reazione culturale, politica e poliziesca riconducibile alle incertezze e alle angosce della crisi economica, della guerra e della Guerra fredda. Dagli anni Trenta in poi, nuove leggi e regolamenti vietarono i drag balls, censurarono le rappresentazioni cinematografiche e teatrali di gay e lesbiche, proibirono a bar, ristoranti e club di assumere gay e anche di servirli. Nel dopoguerra, il senatore Joseph McCarthy affermò che gli omosessuali nel Dipartimento di Stato erano una minaccia alla sicurezza nazionale, mentre la polizia sostenne che gli omosessuali nelle strade erano una minaccia alla sicurezza dei bambini. Se prima della guerra gli arresti annuali per cruisingammontavano a qualche centinaia, dopo la guerra salirono a migliaia l’anno.

Insomma, il mondo gay fu costretto per qualche decennio a scendere underground, e persino a rimuovere la memoria del passato. Con forme e stili diversi, una Gay New York è tornata in superficie solo negli anni Sessanta. Questi sviluppi, sostiene Chauncey, sono una dimostrazione ulteriore che la nozione progressista del cambiamento come sinonimo necessario di marcia verso maggiori libertà è priva di fondamento; nel dopoguerra gli omosessuali newyorkesi erano meno tollerati, meno visibili, e più segregati di quanto lo fossero in precedenza. Fu negli anni Sessanta, fra l’altro, che entrò nel linguaggio gay sia «closet» come metafora della claustrofobica condizione omosessuale, sia il connesso «coming out of the closet» come metafora del penoso disvelamento della propria diversità al mondo «normale». Negli anni Trenta l’idea di «gay closet» non esisteva, l’idea di «coming out» sì, ma con un significato del tutto opposto; si parlava infatti di «coming out into the homosexual society», alludendo a una sorta di presentazione festosa e amichevole nella comunità dei pari. Il termine deriva in effetti dal cerimoniale del ballo delle debuttanti, in occasione del quale le giovani donne sono ufficialmente presentate in società, nella loro società.

La gay history è nata come storia militante e ha mostrato, nelle prime fasi di crescita, forme adolescenziali di egocentrismo, di esplorazione di sé, di ricostruzione della memoria, mettendo la ricerca storica al servizio della politica dell’identità. Non è un peccato particolarmente grave, se si pensa che molte subdiscipline storiche sono nate così, dalla storia nazionale alla storia del movimento operaio fino, nel passato più vicino, alla women’s history. Con questo libro, e pochi altri dello stesso periodo, la storia degli omosessuali negli Stati Uniti ha mostrato di aver superato le prime fasi di narcisismo autoreferenziale esasperato, e di saper parlare a tutta la professione storica, affrontando questioni importanti per tutti. Chauncey è esplicito su questo punto, e sottolinea come il suo lavoro non riguardi solo gli omosessuali né come soggetti né tanto meno come lettori. «Nel disegnare la mappa dei confini del mondo gay», scrive, «necessariamente si disegna anche la mappa dei confini del ‘mondo normale’». Non è solo la cultura «deviante» che si definisce in funzione della cultura dominante, ma anche il contrario, le «persone normali» definiscono se stesse in funzione di, e in antagonismo a quella cultura.

E infatti questa ricerca è di grande interesse, abbastanza prevedibilmente, per chiunque si occupi dei cambiamenti nella costruzione sociale della mascolinità nell’America del Novecento, oppure di storia della sessualità. Ma è anche di grande interesse, va aggiunto e sottolineato con forza, per chi si occupi in questa prospettiva di storia urbana, di storia dei movimenti sociali e politici, e in generale di storia politica. E’ evidente, per esempio, e ormai accettato dalla storiografia, e questo libro lo conferma dal suo specifico angolo visuale, che la questione della definizione della mascolinità in rapporto alle sue presunte deviazioni, inversioni, perversioni è centrale alla fine dell’Ottocento (un periodo nel quale gli uomini erano particolarmente sensibili al problema della loro identità di genere) sia nel dibattito pubblico su riforma morale, corruzione e riforma della politica, che in quello su cittadinanza, razza e civilization. E’ altrettanto centrale, per fare un salto negli anni Sessanta, nel dibattito pubblico sulla guerra del Vietnam. O, per fare un salto ulteriore, in quello sul populismo e sulle vagaries di comportamento dell’attuale inquilino della Casa bianca.

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Categorie:cultura di massa, Cultura politica

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