A voler riformare il sistema costituzionale degli Stati Uniti non sono i populisti – per correggere, come si potrebbe pensare, le complicatezze della vecchia carta settecentesca, la noiosa e inefficiente separazione liberale dei poteri, i pregiudizi anti-maggioritari della macchina istituzionale, insomma le trappole che, secondo i canoni ideologici del populismo internazionale, distanzierebbero l’esercizio delle decisioni politiche dalla genuina volontà del popolo. La tradizione populista americana è piuttosto indifferente a cambiamenti di questo tipo, fin dai tempi del Populist Party di fine Ottocento ha giocato dentro il sistema. Un presidente come Donald Trump, che chiamarlo populista è fargli l’onore di una visione politica che vada al di là dei suoi brutali istinti, e che pronuncia coerenti parole populiste solo quando gliele scrivono sul teleprompter, desidererebbe certo non avere legislatori o giudici che lo intralcino – ma quale presidente non l’ha desiderato, qualche volta pure dicendolo (tipo il Roosevelt degli anni trenta nei confronti del Congresso e della Corte suprema). E tuttavia questo è il sistema, bellezza, e neanche lui può farci niente se non cercare di manipolarlo e aggirarlo, un po’ come tutti, dall’interno.
A immaginare riforme costituzionali sono piuttosto i progressisti, i democratici, talvolta la sinistra, con motivazioni che in parte coincidono con quelle che potrebbero essere invocate dai populisti: più democrazia maggioritaria, più power to the people. Immaginare è il verbo giusto, perché si tratta di cambiamenti che riguardano la natura stessa degli organi federali di governo, la presidenza, il Congresso, la Corte suprema, i modi in cui è scelto il personale che li guida, e che sono assai difficili da realizzare, grazie alle clausole garantiste della Costituzione, che è modificabile sì, ma con giudizio. Cioè con maggioranze qualificate, di necessità bipartisan. Immaginare è tuttavia possibile. Anche se si tratta di proposte minoritarie, che emergono nel dibattito pubblico quando il sistema mostra dei punti di tensione: vizi da correggere per alcuni, legittime caratterische per altri. Oppure quando una parte si sente dal sistema ingiustamente punita, e in questo caso hanno il sapore del risentimento fazioso dei sore losers. E’ un po’ quello che accade ai riformatori liberal-democratici di questi ultimi tempi, soprattutto da quando esiste Trump. Il sapore della fazione c’è sempre e comunque – perché, come diceva quello, si tratta di politics, mica di noccioline.
Partiamo da un editoriale del New York Times del novembre scorso, in cui si invoca un allargamento della Camera dei rappresentanti, dai 435 seggi attuali ad almeno 593, un aumento di 158. Il numero, che può apparire bizzarro, è frutto di calcoli esposti nell’editoriale stesso. Dico subito che questa riforma non riguarda la Costituzione, perché la dimensione dell’assemblea è stabilita per legge ordinaria, in questo caso del 1929. Interessanti sono le motivazioni. Ci sono pochi rappresentanti per troppi abitanti, dicono al Times, e ciò “pone un grosso pericolo alla democrazia americana”. Perché? Ma perché i pochi legislatori perdono i contatti con gli elettori, finiscono per vivere una vita separata, magari accompagnandosi troppo a lobbisti e altri cattivi soggetti. E poi perché una Camera piccola è poco rappresentativa delle diversità politiche, etniche, culturali del paese. Una assemblea più grande avrebbe più possibilità di aprirsi ai “gruppi perennemente sottorappresentati, come le donne e le minorities” – e va bene, qui sapete già che siamo in territorio arci-partigiano. Infatti, per chi votano in maggioranza donne e minorities, con chi siedono i loro deputati? Siamo chiaramente nei paraggi del partito democratico, e il Times si sa da che parte sta.
Il vero luogo della disparità di rappresentanza dei cittadini è nel Senato, per un’ovvia ragione: perché il Senato non rappresenta “the People” ma gli stati. E questo è nella Costituzione, è in effetti una delle ragioni per cui la Costituzione originaria è stata approvata anche dagli stati più piccoli, è quindi una delle ragioni per cui esistono gli Stati Uniti come governo federale. In Senato tutti gli stati sono creati eguali, ciascuno con due senatori, tanti o pochi che siano i loro abitanti. Questa disparità, esistente da sempre, è stata accentuata dallo sviluppo economico e demografico che ha concentrato le attività produttive e la popolazione tutta, soprattutto se di nuova immigrazione, nelle aree urbane. Anche in termini quantitativi è questa la “vera America”, metropolitana ed etnicamente diversa – non l’America bianca, rurale e delle piccole città celebrata dalle fantasie conservatrici, che è invece ben presente in Senato. Il Senato federale è un caso estremo di governo della minoranza. Tenendo conto dei vasti poteri che gli sono assegnati, in politica estera, nelle nomine dei giudici federali, è anche una delle camere alte più potenti nelle democrazie liberali.
Metterne in discussione la struttura con una riforma di necessità costituzionale sembra davvero difficile. Per ragioni partisan, visto che almeno oggi una parte, il partito repubblicano, ne trae vantaggio e non vuole rinunciarvi. Per ragioni federaliste, visto che ogni cambiamento richiede il consenso degli stati più piccoli, che certo non vogliono suicidarsi. La stessa carta fondante contiene una clausola che dice: “nessuno Stato, senza il suo consenso, sarà privato della sua parità di suffragio in Senato”. E allora, riforma per riforma, la soluzione non può essere che pensata in termini drastici e, diciamolo, un po’ propagandistici: l’abolizione, punto e basta. Lo chiedono i giacobini di Jacobin, e si capisce. Ma anche i gentiluomini di Gentlemen’s Quarterly. E un opinionista del Washington Post. E vecchi ex deputati democratici come John Dingell, l’uomo che è stato in Congresso più a lungo di tutti, 60 anni fino al 2015. E’ pure una vecchia storia. Nel 1911 fu il solitario deputato socialista Victor Berger da Milwaukee a presentare un emendamento costituzionale per l’estinzione del Senato: corpo inutile, minaccia alla libertà, congrega di servi corrotti del big business. Un club di milionari, si diceva a fine Ottocento. In effetti, lo si può dire ancora.
La struttura dei due rami del Congresso è determinante per l’elezione del Presidente. E qui il discorso si fa un po’ più concreto. Il Collegio presidenziale dei grandi elettori scelti stato per stato, ciascuno stato avendone un numero pari al numero dei suoi deputati alla Camera (quindi proporzionale alla popolazione) più il numero dei senatori (due per tutti), produce una distorsione della rappresentanza simile a quella del Senato. Infatti sovrarappresenta gli stati più piccoli nel processo elettorale: uno stato con pochi abitanti ha magari diritto a un solo deputato, ma tre grandi elettori presidenziali non glieli toglie nessuno. E questo è il lato più controverso della faccenda. Ancora una volta, infatti, ne esce esaltata l’influenza delle aree rurali e meno popolose del paese verso quelle metropolitane, cioè delle aree conservatrici verso quelle progressiste, cioè di quelle repubblicane verso le democratiche. Inoltre, da quando i grandi elettori sono scelti con suffragio popolare in grandi campagne nazionali, è diffusa l’illusione ottica che il Presidente sia eletto direttamente da “We the People”. Ma non è così, e ogni tanto c’è lo scandalo pubblico di presidenti che entrano alla Casa bianca con una minoranza nel voto popolare (come nel 2016 e nel 2000).
Proliferano dunque le ipotesi di riforma. Fra le tante elaborate dacché esiste la repubblica (è una lunga storia), la più coerente prevede l’elezione diretta nazionale del Presidente e l’abolizione del sistema dei grandi elettori statali. Quindi una modifica della costituzione. Il solito affare complicato, insomma, carico di implicazioni partisan prima ancora che istituzionali, soprattutto quando riemerge in momenti di furibondo conflitto politico come questi, gli ultimi paio d’anni, gli ultimi mesi. Perché dovrebbero essere favorevoli i repubblicani, che dall’attuale assetto traggono solo vantaggi? Non a caso, a proporre la riforma sono organizzazioni e personalità progressiste di lungo corso, fino alla giovane deputata Alexandria Ocasio-Cortez: espressione di frustrazione per aver subito lo scippo della presidenza per ben due volte di seguito con George W. Bush e ora con Trump? Non solo per questo, anche se la cosa continua a bruciare. In effetti idee del genere hanno circolato spesso nel partito democratico, talvolta scritte nel suo stesso programma ufficiale. E la discussione congressuale più seria è avvenuta giusto cinquant’anni fa, nel 1969-1970. Naturalmente il Collegio è ancora là, e la sua abolizione una pie in the sky.
Infine, la Corte suprema: una istituzione che più elitaria e separata non si può, per sua gloria e maledizione, e che fin dalla nascita ha suscitato lo sdegno dei democratici più radicali e l’istinto di manipolazione di ogni politico che si rispetti. In effetti, dal 1800 in poi i tentativi di toccarne ruolo, caratteri e composizione sono centinaia. I più pacati affrontano il nodo costituzionale della nomina a vita dei suoi nove giudici, proponendo dei term limits: che ogni giudice abbia un unico mandato, tipo 18 anni, e poi a casa, senza aspettare che morte li divida. I tentativi più avventurosi e recenti provengono ancora una volta da sinistra e reagiscono alla svolta a destra della Corte impressa dalle nomine di Trump, una svolta destinata a durare ben oltre Trump. Qui court packing è la parola chiave, riecheggiando le manovre rooseveltiane del secolo scorso: prepararsi ad aumentare il numero dei giudici da nove a 15, così da dare a un futuro presidente progressista l’opportunità di fare nuove nomine tutte sue e diluire la presenza conservatrice. Non c’è un problema costituzionale: il numero dei giudici è stabilito con legge ordinaria. Ma c’è un problema politico. L’operazione è percepita dagli stessi sostenitori come un modo di giocare sporco, una risposta al gioco sporco dei repubblicani (la nomina del giudice Merrick Garland negata a Obama). E certo, ahimé, richiede che Casa bianca e Congresso tornino in mani democratiche.
(Dicembre 2018)
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