
Nella foto a sinistra Tiziano Terzani al lavoro, mentre intervista H. Rap Brown
Non ho conosciuto personalmente Tiziano Terzani, sono arrivato all’università di Pisa dieci anni dopo di lui. L’avevano conosciuto amici più grandi, quando frequentava giurisprudenza ed era alunno dell’allora Collegio medico-giuridico, l’antenato dell’odierna Scuola superiore Sant’Anna, e me ne parlavano spesso. (Un dettaglio da pettegoli? “Era intenso, era bello, sapeva di essere bello”.) Io conoscevo bene solo il suo nome, perché leggevo l’Astrolabio, il settimanale di Ferruccio Parri, e i suoi frequentissimi articoli dagli Stati Uniti fra il 1967 e il 1970. Un amico mi ha detto, “anche tu eri là in quegli anni, che ne dici?”. Non è vero, ricorda male, sono andato dopo, nel 1972, ma comunque qualcosa da dire ce l’ho lo stesso: la lettura di Terzani mi convinse che in America “dovevo” andare, assolutamente.
Ora i suoi articoli americani sono raccolti in volume, In America. Cronache da un mondo in rivolta (Longanesi 2018), curato da Àlen Loreti e con l’introduzione della moglie Angela Terzani Staude. (E con fotografie a corredo che confermano i pettegoli: bello e intenso e molto self-confident il giovane Tiziano newyorkese.) Angela Staude è affascinante nel racconto della loro vita di men che trentenni sbarcati nel Nuovo mondo del gran fermento politico, intellettuale, culturale, personale ed erotico, peace and love, di New York e della California, ma anche dell’immensità del Midwest, della grandiosità del West. Ci stanno due anni, e come tornano? “Siamo tornati più giovani, più liberi, più forti … La fortuna ci aveva messo davanti a una delle città più interessanti del mondo, New York, in uno dei periodi più avvincenti della sua storia”.
Tiziano era partito antiamericano, “ci andava con il fucile spianato a verificarne le pecche”, e tale rimase fino all’ultimo, “o meglio: è rimasto guardingo nei confronti dell’America con cui non ha mai smesso di fare i conti”. E tuttavia anche l’antiamericanismo non era un ostacolo ad andare e a mescolarsi con la meglio gioventù e le menti migliori, al culmine del secolo americano e del suo soft power. “Ma lei, perché è così antiamericano?”, gli chiede nel novembre 1966 colui che sta per offrirgli una borsa di studio Harkness per due anni di residenza negli States. “Forse perché non sono mai stato in America”, risponde lui. E poi, una volta là, commenta Angela, quanto era forte “il carisma di quel romantico giovane fiorentino dalle convinzioni politiche troppo radicali, ma espresse con un ardore che affascinava tutti?”
Una ossessione di Terzani, così come una ossessione dei tempi e dell’America, è il Vietnam, la guerra americana in Vietnam. Ci sarà tempo di leggere (o rileggere) le 400 pagine del volume, ma il primo e l’ultimo pezzo della raccolta sono significativi. Il primo è sulla grande manifestazione contro la guerra che si tiene a Washington il 21 ottobre 1967, ed è cronachistico, pulsante di energia, di fatti, di persone, di personaggi. L’ultimo è del novembre 1970 (in effetti l’autore ha già lasciato gli Stati Uniti da un anno): la guerra non finisce mai, è una crisi permanente, una piaga aperta, il tono è amaro, predicatorio, editorializzante. Questo è anche l’ultimo pezzo per l’Astrolabio, alcuni mesi dopo Terzani parte per il Sudest asiatico per andare a vedere con i suoi occhi.
Per il momento questa è la sua conclusione:
La rivoluzione non è dietro l’angolo come molti giovani si sono illusi in passato e come molti liberali fanno ancora credere indentificando la rivoluzione in obiettivi ben diversi da quelli di cui l’America avrebbe bisogno. Avremo a che fare con questo Vietnam e con questa America per molti anni ancora.
Il Vietnam è stato la finestra sull’anima fascista dell’imperialismo, il test delle identificazioni morali di tanta intellighenzia impegnata dell’Occidente. Il Vietnam resterà ancora per molto tempo sulle nostre coscienze perché “su questo paese dove ogni foglia d’erba è un capello umano, dove ogni centimetro di terra è carne d’un uomo, dove piove sangue e grandinano ossa, dovrà, dovrà pur fiorire la vita”. Poeta vietnamita Ngo Vinh Long.
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