Short Cuts America: il blog di Arnaldo Testi

Politica e storia degli Stati Uniti

Le donne democratiche che vogliono riprovarci, a conquistare la Casa bianca

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Kirsten Gillibrand, Elizabeth Warren, Kamala Harris, Amy Klobuchar

Pubblicato anche su ytali.com del 23 settembre 2017

La sconfitta di Hillary Clinton non ha affatto tolto alle donne del partito democratico la voglia di ritentare la strada della Casa bianca, alle prossime elezioni presidenziali. Alcune si stanno preparando, incontrano elettori e sostenitori politici e finanziari, visitano gli stati come l’Iowa da cui ripartirà, fra poco più di due anni, appena un battito di ciglia, la corsa delle primarie. Prominenti fra loro sono almeno quattro senatrici – che hanno tutte le qualità, l’ambizione e la determinazione necessarie per tentare l’impresa.

La più nota è certamente Elizabeth Warren, senatrice del Massachusetts, che è anche la più progressista, la beniamina dell’ala left-liberal del partito, e quindi la più problematica. La sinistra voleva che corresse l’anno scorso, ma si è tenuta fuori lasciando campo libero da una parte a Clinton, per ragioni di genere, e dall’altra a Bernie Sanders, per le idee che sono anche le sue. Nata nel 1949, nel 2020 avrà 71 anni; appartiene alla stessa generazione baby boomer che sembra tornata a dominare la scena politica presidenziale.

Poi c’è Kamala Harris della California, appena arrivata in Senato, eletta lo scorso novembre, ma già una rising star di cui sembra non si possa fare a meno. Ha una personalità formidabile e attraente nonché una carta d’identità razziale, in parte indiana tamil in parte afro-americana, che richiama quella di Barack Obama. (Quando era procuratore statale della California, Obama disse di lei che era “il più bel attorney general del paese”, un commento considerato sessista di cui si scusò.) Avrà 56 anni nel 2020, l’età giusta.

Kirsten Gillibrand di New York è la più regolare e istituzionale delle quattro e anche la più giovane, avrà 54 anni nel 2020. Occupa il seggio lasciato da Hillary Clinton nel 2009 (quando scelse di diventare segretario di Stato per Obama), prima per nomina del governatore e poi per rielezione in proprio. Ha accumulato molta esperienza e, dopo le diffidenze iniziali, gode di solidi rapporti con l’establishment del partito dove è considerata una delle più efficaci fundraisers.

Infine c’è Amy Klobuchar del Minnesota (60 anni nel 2020), la meno nota fuori e dentro il paese. Per le storiche stranezze laburiste del suo stato etnicamente scandinavo, è eletta sotto l’etichetta del Democratic-Farmer-Labor Party. A differenza delle altre, figlie di stati della costa, è una progressista che viene dal Midwest rurale e industriale, una regione dove si combattono alcune battaglie elettorali decisive. Potrebbe non avere le risorse finanziare per competere, e deve affrontare la propria rielezione al Senato nel 2018, e sopravvivere.

Tutte costoro, ciascuna a modo suo, con maggiore o minore cautela, sembrano investire in uno slittamento programmatico del partito verso sinistra. Warren è un campione da sempre di quest’area, e anche Klobuchar è sempre stata lì, più o meno. Harris e Gillibrand, dopo una giovinezza sventata a fare le centriste, si stanno riposizionando in quella direzione, scommettendo che sia la direzione giusta e così rafforzandola. Entrambe, per esempio, si sono dichiarate a favore della riforma sanitaria di tipo Medicare-for-all presentata da Bernie Sanders.

Nessuna di loro ama presentarsi come the woman candidate, in un momento in cui la identity politics è assai discussa. E soprattutto con la misoginia e il sessismo che hanno segnato l’avventura presidenziale di Hillary Clinton, e di cui Clinton traccia una mappa raggelante nel suo memoir elettorale What Happened. Trovano magra consolazione in una battuta di Warren: dopo quattro anni di Trump, ha detto, “mi chiedo se l’America sarà mai di nuovo pronta ad avere un presidente maschio”. Trovano consolazione più seria nel fatto che Hillary ha comunque vinto alla grande il voto popolare.

Tutte le possibili candidate hanno infine una caratteristica comune, cioè sono padrone di se stesse, camminano con le proprie gambe. La loro carriera non dipende dall’eredità politica di una figura maschile, un padre o un marito – come, in qualche misura, è successo persino per la ex First Lady Hillary Clinton. Se si guarda al Senato, questo è uno sviluppo relativamente recente, in effetti normale solo dopo le elezioni degli anni 1990s. Oggi le senatrici sono 21 su 100, 16 democratiche e 5 repubblicane; in tre stati (California, New Hampshire e Washington) occupano entrambi i seggi. E sono tutte così, self-made women.

In proporzione le donne in Senato sono ovviamente poche, e tali sono anche alla Camera, 84 su 435 (62 democratiche e 22 repubblicane), più o meno lo stesso 20%. In ogni caso ci sono e crescono di numero, qui come nelle altre aree della vita pubblica. Manca la Casa bianca. Come ha detto Ellen Malcolm, una delle fondatrici di EMILY’s List, il gruppo nato trent’anni fa per finanziare le donne in politica: “Abbiamo fatto la storia tante volte, ma il top ci è sempre sfuggito. Non si può davvero dire che le donne godano di eguaglianza politica finché non dimostrano di poter vincere la corsa più importante che c’è”.

Categorie:campagna elettorale

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