Dal punto di vista della critica alla struttura del sistema politico e istituzionale, e tanto più dal punto di vista di una sua reale trasformazione, l’eredità del Populist Party o People’s Party di fine Ottocento è stata minima o inesistente. E’ stata minima anche perché l’interesse a costruirla era inesistente. I Populisti di allora, a differenza dei movimenti storicamente definiti populisti con la minuscola (negli Stati Uniti e altrove), non attaccarono la democrazia rappresentativa né la democrazia dei partiti; pensavano piuttosto di esserne parte, partito fra i partiti, dediti alla conquista elettorale delle assemblee legislative statali e federali. Non proposero leadership carismatiche né poteri esecutivi forti; non avevano il culto del capo e volevano limitare a un solo mandato la carica del Presidente.
Le critiche, gli attacchi e i tentativi di trasformazione del sistema politico e istituzionale in effetti ci furono ma vennero da altri quartieri, da altri movimenti riformatori che si definirono “progressisti” ed emersero all’inizio del Novecento: in parte concordi su alcuni obiettivi dei Populisti, in larga parte ostili alla loro base sociale e alla loro stessa esistenza in quanto partito, comunque ben distinti per origini, tattiche e strategie. La concordia di obiettivi riguardava l’estensione delle funzioni positive del governo e l’avvio di politiche sociali e di controllo dell’economia. Per il resto, i nuovi movimenti nascevano nella middle class e nel mondo degli affari, e temevano gli eccessi di una democrazia diventata ai loro occhi troppo popolare, plebea e disordinata, di cui anche i Populisti erano ritenuti responsabili. Volevano regolarla, renderla più “efficiente”.
Furono questi nuovi movimenti a scagliarsi contro le “perversioni” del governo di partito e la party supremacy (noi diremmo la partitocrazia), contro gli apparati partitici invadenti e clientelari, contro la corruzione dei politici di professione. Furono loro a esaltare l’azione politica indipendente di club, leghe e movimenti single-issue, che avrebbe tagliato attraverso le fedeltà partitiche per parlare direttamente al popolo. Furono loro a battersi per rafforzare gli organi esecutivi, monocratici e personalizzati come i sindaci, i governatori, lo stesso Presidente, che meglio avrebbero espresso la volontà popolare a discapito dei corpi rappresentativi dominati dai partiti. E furono loro infine a diffondere la democrazia diretta referendaria per compensare, di fronte all’opinione pubblica, il rafforzamento dell’esecutivo a scapito delle assemblee legislative.
Furono insomma i progressisti del ceto medio e d’elite, e non i più popolari Populisti, a introdurre nel discorso pubblico e in parte nella macchina del governo degli elementi che poi sarebbero stati in sentore di populismo – e che avrebbero avuto una qualche importanza soprattutto a livello locale e statale. A livello nazionale, no. Qui il federalismo e il farraginoso sistema elettorale presidenziale che ne deriva, la separazione dei poteri e i checks and balances voluti da Padri fondatori ostili al governo della maggioranza, nonché il party government inventato dai party politicians nell’Ottocento, hanno continuato a indirizzare e plasmare la vita politica. Anche nel caso di presidenti ritenuti anomali, e magari etichettati come populisti con la minuscola. Donald Trump, per dire, ha vinto come candidato regolare di un major party e grazie al filtro deformante e anti-plebiscitario dell’Electoral College. E appena in carica ha subito fatto i conti con i soliti lacci e laccioli del potere giudiziario, del Congresso, del suo stesso partito.
- Letture. Una comunista americana a Mosca, ottanta anni fa, nel 1937 delle purghe staliniane
- Letture. Luciana Castellina in Amerika (1973)
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