Short Cuts America: il blog di Arnaldo Testi

Politica e storia degli Stati Uniti

Letture. Una comunista americana a Mosca, ottanta anni fa, nel 1937 delle purghe staliniane

forward-to-communism-under-stalinPeggy Dennis (1909-1993) è una attivista e dirigente del Communist Party USA per gran parte della sua vita e della vita più intensa del partito, dagli anni 1920s alle dimissioni nel 1976. Nasce a New York come Regina Karasick, figlia di immigrati ebrei russi, rivoluzionari e socialisti. E’ la compagna di vita di Eugene Dennis, che diventa segretario generale del CP-USA dal 1945 al 1959. Fa un po’ di conti con il suo passato in The Autobiography of an American Communist: A Personal View of a Political Life (1977), da cui traggo la pagina che segue, in italiano e in inglese.

Qui Peggy è a Mosca nel 1937, ottanta anni fa, venti anni dopo la rivoluzione. Lavora per il Comintern e risiede al Luxe Hotel, che ospita militanti provenienti da tutto il mondo. E ci sono le purghe staliniane.

Non sapevamo a quel tempo che i pochi processi-farsa pubblici di vecchi bolscevichi erano solo la punta dell’iceberg. Non sapevamo che centinaia di migliaia di quadri socialisti del Partito o simpatizzanti erano imprigionati o giustiziati come deviazionisti politici, spie, sabotatori. Non sapevamo la portata di quelle purghe, ma non possiamo dire che non sapevamo cosa stesse succedendo. Sapevamo che si stava decimando il Comintern. Leggevamo dei processi pubblici. Vero, leggevamo in silenzio, perplessi, senza capire bene, ma leggevamo i resoconti e li accettavamo. Li accettavamo come parte della realtà brutale del processo rivoluzionario, per costruire un’oasi di socialismo in un mare di nemici. Accettavamo la fede nell’infallibilità dei nostri dirigenti, la saggezza del Partito. I fatti e le affermazioni al contrario erano rifiutati come la prova provata di quell’anti-sovietismo che richiedeva la vigilanza voluta da Stalin.

Solo diciannove anni dopo, quando la dirigenza sovietica ammise il terribile inganno e l’inutile incarcerazione e massacro di milioni, solo allora accettammo di vedere. Solo allora, e per un breve momento, fu messo in discussione il concetto dell’infallibilità della leadership.

Nel 1961 e di nuovo nel 1965 quando per un breve periodo alcuni sovietici mi parlarono liberamente di quegli anni, scoprii che le nostre reazioni al Luxe non erano state troppo diverse da quelle dei cittadini sovietici. Molti mi raccontarono la stessa storia. Quando la polizia segreta veniva a prendere un vicino, si rispondeva con un’alzata di spalle, nervosamente. “Avranno sicuramente le prove, altrimenti il Partito non lo farebbe”. Quando la polizia veniva per te o tua moglie o tuo marito o tuo fratello o tua sorella o tua madre o tuo padre o tuo zio o tua zia o un caro amico, “sapevi che si trattava di un terribile errore, eri sicuro che sarebbe stato corretto in pochi giorni”. E così aspettarono in silenzio per quasi vent’anni che il Partito correggesse il suo “errore”.

Al Luxe nel 1937 i compagni di lingua inglese divennero un gruppo separato, isolato. Arrivavano da noi, in un flusso continuo, inglesi, australiani, canadesi, irlandesi, gallesi, africani, indiani, filippini. L’unica cosa di cui non si parlava erano i processi, gli arresti, la scomparsa dei compagni dal Comintern e dal Luxe. Era come se ciascuno di noi sapesse di non potersi fidare a scoperchiare il vaso di Pandora. Le chiacchiere erano salottiere e banali. Le risate divennero troppo acute. Di politica si parlava solo a proposito dei paesi di provenienza. Là le questioni e le lotte erano ben chiare. Mettendo a tavola bottiglie di vino, pesce conservato, formaggio e pane, ridevamo e bevevamo e mangiavamo e ballavamo con le canzoni dolenti di Edith Piaf suonate sul preziosissimo piccolo victrola che avevamo portato da Parigi per Molly.

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Peggy Dennis e Eugene Dennis a New York City, 1950

We did not know at that time that the few public show trials of Old Bolsheviks were but the tip of the iceberg. We did not know that hundreds of thousands of Party and non-party socialist cadre were being imprisoned and executed as political deviationists, spies, saboteurs. We did not know the extent of those purges, but we cannot claim we did not know what was happening. We knew that the Comintern had been decimated. We read of the public trials. True, we read in silence, puzzled and uncomprehending, but we read the accounts and we accepted them. We saw it as part of the brutal realities of making revolution, of building an oasis of socialism in a sea of enemies. We accepted the belief of infallibility of our leaders, the wisdom of our Party. Facts and claims to the contrary were rejected as the very proof of that anti-Sovietism that demanded the vigilance Stalin urged.

Only nineteen years later, when the Soviet leadership admitted the terrible hoax and the needless murder and imprisonment of millions, only then did we allow ourselves to see. Only then, for a short time, was the concept of infallibility of leadership challenged.

In 1961 and again in 1965 when for a short time Soviet people talked to me freely of those years, I found that our reactions in the Luxe had been not too different then those of the Soviet citizens. Many told me the same story. When the security police came for one’s neighbor, one shrugged uneasily. “The evidence must be there, the Party would not act otherwise.” When the police came for you or your wife or husband or brother or sister or mother or father or uncle or aunt or close friend, “you knew it was a horrible mistake, you believed it would be rectified in a few days.” And they waited in silence for almost twenty years for the Party to correct its “mistake.”

At the Luxe in 1937 the English-speaking comrades became an insulated group. To our rooms came a stream of English, Australians, Canadians, Irish, Welsh, Africans, Indians and Filipinos. The one subject no one mentioned was the trials, the arrests, the disappearance of comrades from the Comintern and the Luxe. It was as though we each knew we could not trust ourselves to open the lid of the Pandora’s box. Our talk was social and banal. Our laughter became too brittle. Our political talk was limited to events back home.There the issues and struggles were clearcut. With bottles of wine, tinned fish, cheeses, loaves of bread on the table, we laughed and drank and ate and danced to the plaintive songs of Edith Piaf played on the highly-prized small victrola we had brought from Paris for Molly.

Categorie:Americanismo, Radicalism

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