All Creation going to the White House, Washington, March 4, 1829. Library of Congress.
Poco meno di due secoli fa, il 4 marzo 1829, ci fu la prima inaugurazione presidenziale veramente popolare. Il presidente Andrew Jackson giurò in pubblico e all’aperto, sul portico del Campidoglio (fino ad allora la cerimonia era privata). Tenne un breve discorso inaugurale che quasi nessuno riuscì a sentire; c’erano troppe persone presenti, e la voce umana è quella che è. Quando si avviò a piedi lungo Pennsylvania Avenue verso la Casa bianca fu accompagnato da decine di migliaia di ammiratori e seguaci in festa.
E quando giunse a destinazione la trovò occupata da gruppi ancora più festanti, forse troppo.
Il diritto di voto si stava diffondendo, stava diventando universale (per i maschi bianchi, va da sé); i partiti politici di massa stavano diventando importanti; i grandi elettori presidenziali cominciavano a essere eletti direttamente dal popolo e in liste di partito; stavano nascendo le grandi campagne elettorali nazionali. Quindi i seguaci di Jackson erano elettori e militanti di partito, nel caso specifico del suo partito democratico. Ed erano cittadini comuni, magari appena arrivati dal West, giusto per l’occasione. Non erano gentlemen, non sapevano stare in società, e combinarono disastri.
O così almeno la mettono alcuni testimoni oculari del tempo, gente d’élite con la puzza sotto il naso.
Gente che tuttavia capì al volo il messaggio: la repubblica stava cambiando, stava diventando una repubblica democratica. Di lì a poco avrebbe meritato di essere raccontata da Tocqueville sotto l’impegnativo titolo, De la démocratie en Amérique. Checché ne dicano gli osservatori di oggi, l’evento non aveva nulla di “populista” nel senso odierno del termine, né nella retorica né nel significato storico. Nella Washington del 1829, con Jackson, stava nascendo una vibrante party democracy – che sì, agli occhi delle vecchie classi dirigenti poteva sembrare il trionfo del volgo e della volgarità di nuovi capi.
Ma si sa come son fatte le vecchie classi dirigenti, quando si sentono scalzate dalla stazione sociale e politica che a loro giustamente appartiene.
Tutto il creato va alla Casa Bianca, è il titolo di una stampa del 1841 che raffigura lo storico evento. Fra i presenti c’è chi è più specifico e allarmato. E’ arrivato “il regno di King Mob”, dice. Sono arrivati “i barbari”. C’è una inondazione tumultuosa di corpi plebei che riempiono ogni spazio, di “facce strane” diverse e fisicamente intimidenti. Ogni loro movimento sembra “gridare ‘vittoria!’”, ogni faccia mostra “un atteggiamento di sfida”: chiaramente i prole hanno delle pretese. I nuovi cittadini, i cittadini comuni, appaiono come una massa indistinta e aliena, ostile e sgarbata.
A guardare c’è anche Margaret Bayard Smith, scrittrice, giornalista e gran dama dei pochi salotti della giovane capitale. E ne parla in una lunga e dettagliata lettera a un’amica – una delle lunghe straordinarie lettere che le signore colte scrivono nell’Ottocento.
E’ una cronaca in presa diretta in cui si narra di folle immense che si accalcano intorno al nuovo presidente, a piedi, a cavallo, in carrozza, senza distinzione di rango, “un po’ eleganti e un po’ straccione”. A queste folle Jackson si inchina più volte: ebbene sì, scrive con genuina sorpresa Margaret, è il presidente a inchinarsi “al Popolo in tutta la sua maestà”. In mezzo a esse cammina, unico uomo a capo scoperto: è “il Servitore in presenza del suo Sovrano, il Popolo”. E’ il mondo alla rovescia. Ma questo Margaret lo accetta, se ne fa una non disprezzabile ragione.
“Se lo spettacolo si fosse concluso lì, persino gli europei avrebbero dovuto riconoscere che un popolo libero, riunito in tutta la sua potenza, silenzioso e tranquillo, disciplinato solo da una forza morale, senza la minima presenza di forza militare, aveva una maestà quasi sublime, di gran lunga superiore alla maestà di Re e Principi, circondati da eserciti e splendenti d’oro”.
Ma lo spettacolo, ahimé, non si conclude lì. Quando Jackson arriva alla Casa bianca, scoppia il pandemonio. Una marmaglia di campagnoli e ragazzi, donne e bambini, bianchi e negri, invade l’edificio e, fra spintoni, litigi e lazzi, fa man bassa dei rinfreschi preparati per i pochi e scelti invitati, rompe bicchieri e piatti, entra e esce dalle finestre invece che dalle porte. Si vedono nasi insanguinati, signore svenute. E in un angolo, pigiato contro un muro, lo stesso Jackson rischia di essere soffocato a morte. Certo, “era il giorno del Popolo, e del Presidente del Popolo, e il Popolo comandava” – ma “la Maestà del Popolo era scomparsa”.
E Dio non voglia che il popolo ci prenda l’abitudine.
“Dio non voglia che un giorno o l’altro, il Popolo, non si metta sotto i piedi tutto il governo e i governanti. Saranno anche uomini liberi e illuminati, ma temo che si scoprirà, come si è scoperto in tutte le epoche e in tutti i paesi dove si sono impadroniti del potere, che di tutti i tiranni, essi sono i più feroci, crudeli e dispotici. La marmaglia rumorosa e disordinata nella President’s House mi ha ricordato le descrizioni che ho letto delle folle alle Tuileries e a Versailles, e sono certa che i tappeti e il mobilio saranno tutti rovinati, le strade erano piene di fango, e questi ospiti sono arrivati laggiù a piedi”.
Altro che populismo, qui ci sono tappeti in disordine e ombre rivoluzionarie francesi.
Ombre che per fortuna sono disperse dal godimento estetico. Tutta la descrizione è venata di un voyeurismo deliziato. Due parole vi ricorrono: “spettacolo” e, per qualificare lo spettacolo, “sublime” (“Era grandioso – era sublime!” oppure “E’ bellissimo – è sublime!”). E naturalmente, nel suo senso romantico, sublime rinvia a qualcosa che suscita orrore ma anche piacere, perché chi guarda sa che quella percezione è fiction, che non c’è vero pericolo, che il pericolo è a distanza di sicurezza e che comunque passerà: “la città, oggi così affollata e trafficata, tornerà domani silenziosa e deserta, perché la gente se ne sta andando con la stessa impazienza con cui è venuta”.
Nel frattempo, stanchissima, Margaret passa il resto della giornata “distesa sul sofà”.
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La lettera di Margaret Bayard Smith (1778-1844) è in First Forty Years of Washington Society: Portrayed by the Family Letters of Mrs. Samuel Harrison Smith (Margaret Bayard) from the Collection of Her Grandson J. Henley Smith, ed. Gaillard Hunt, New York: Scribner, 1906.
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