Nel Federalista numero 68 (del 12 marzo 1788) Alexander Hamilton spiega perché i padri costituenti hanno deciso di fare eleggere il presidente degli Stati Uniti con un sistema indiretto, da parte di gruppi di cittadini, i grandi “elettori”, designati allo scopo, Stato per Stato. Solo così, dice, si può sperare che la scelta sia ben ponderata, che le qualità del candidato siano ben valutate con il discernimento necessario a un’indagine così complessa.
I grandi elettori, dice Hamilton, saranno personalità indipendenti, capaci di decidere ciascuno con la propria testa. Non saranno politicians, tipo deputati o senatori. Resteranno in carica per poco tempo e con un unico scopo. Saranno indicati su base statale e su tale base si riuniranno per deliberare (invece che in una unica assemblea nazionale). Tutto ciò consentirà di minimizzare il pericolo di indebite influenze e sollecitazioni, di tumulti e disordini, di passioni, intrighi e corruzione – “questi nemici mortali del governo repubblicano”.
E infine c’è la conclusione e il cuore stesso del ragionamento, nella traduzione italiana del Federalista nelle edizioni del Mulino:
“Le modalità di elezione, dunque, offrono la garanzia morale che la carica di Presidente non toccherà mai a persona che non sia dotata delle qualità necessarie. Il talento per il basso intrigo o le piccole manovre per accaparrarsi popolarità possono forse bastare, da sole, a conseguire anche i massimi onori in un singolo Stato ma ben altre abilità e diverso merito dovrà il candidato possedere per guadagnarsi la stima e la fiducia di tutta l’Unione, o quanto meno, di tanta parte di essa quanta sarebbe necessaria a permettergli di ascendere all’alta carica di Presidente degli Stati Uniti.
Non sembri eccessivo affermare che esiste una notevole probabilità di vedere tale carica costantemente ricoperta da persone che si distinguano per virtù o meriti intrinseci.”
Il punto debole di questa logica sta nel fatto che i padri costituenti, con la possibile eccezione di James Madison, facevano finta che i partiti politici non esistessero. O meglio, li ritenevano delle “fazioni” sovversive, un male da cui guardarsi, da evitare a tutti i costi. Certo mai avrebbero pensato di vederli coinvolti in operazioni di rilevanza costituzionale.
Di lì a poco il mondo cambiò. I partiti divennero i principali protagonisti della vita pubblica, trasformando l’elezione del presidente in un evento di fatto nazionale. E i grandi elettori cominciarono a essere presentati non come individui indipendenti ma come nomi in liste chiuse di partito, eletti con il principio del winner-take-all e con il mandato politico di votare per il candidato del partito.
Anche così, tuttavia, il sistema, con le sue barocche articolazioni federali, è sempre stato considerato a prova di demagogo. Fino a oggi.
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Questa è la versione originale del passo del Federalista 68 citato qui sopra:
“The process of election affords a moral certainty, that the office of President will never fall to the lot of any man who is not in an eminent degree endowed with the requisite qualifications. Talents for low intrigue, and the little arts of popularity, may alone suffice to elevate a man to the first honors in a single State; but it will require other talents, and a different kind of merit, to establish him in the esteem and confidence of the whole Union, or of so considerable a portion of it as would be necessary to make him a successful candidate for the distinguished office of President of the United States.
It will not be too strong to say, that there will be a constant probability of seeing the station filled by characters pre-eminent for ability and virtue.”
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Categorie:electoral college
Tag:Alexander Hamilton, Collegio elettorale, demagogo, grandi elettori
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