L’orazione funebre di Barack Obama per il reverendo e senatore Clementa Pinckney, pastore della Mother Emanuel African Methodist Episcopal (AME) Church di Charleston, è stata una straordinaria performance. E performance è la parola giusta: una continua commutazione di codici linguistici testuali, vocali, corporei, con cui il presidente ha parlato da presidente e da leader spirituale, da americano e da afro-americano, da credente e da cittadino. Una performance e un code-switching ovviamente studiati, preparati ed eseguiti alla perfezione. In cui Obama sembrava a suo agio in tutte le parti.
Non è che ci siano dubbi, ma insomma, qui è messo in chiaro ancora una volta: se volete un luogo da cui partire per capire il rapporto fra religione e politica nella vita pubblica americana, ma anche fra teologia e politica, non c’è nessun luogo migliore della chiesa nera e della sua retorica.
Per ragioni, come dire, strutturali: “we don’t make those distinctions”.
A Clementa chiedevano spesso perché aveva deciso di essere insieme un pastore e un servitore pubblico. Ma la persona che chiedeva probabilmente non conosceva la storia di questa chiesa. Come i nostri fratelli e le nostre sorelle sanno, noi non facciamo queste distinzioni. “La nostra vocazione”, diceva Clem, “non si esercita solo dentro le mura della congregazione, ma nella vita e nella comunità in cui la nostra congregazione risiede”.
E naturalmente per ragioni storiche: la chiesa nera è “our beating heart”.
La chiesa è ed è sempre stata il centro della vita afro-americana – un luogo che chiamiamo nostro in un mondo troppo spesso ostile, un santuario contro tante avversità. Questo è ciò che significa la chiesa nera. Il nostro cuore pulsante. Il luogo dove la nostra dignità di popolo è inviolata. E non c’è miglior esempio di questa tradizione di Mother Emanuel – una chiesa costruita da neri che cercavano la libertà, bruciata e distrutta perché il suo fondatore voleva far finire la schiavitù, solo per risorgere di nuovo, come una Fenice dalle sue ceneri.
E poi c’è la questione della grazia, intorno alla quale il presidente costruisce tutto il suo discorso politico e di policy. Nella tradizione cristiana, dice Obama, la grazia non è qualcosa che conquistiamo, che ci meritiano. E’ un libero generoso dono di Dio, che ci fa vedere quello che prima non vedevamo, proprio come dice il vecchio inno, Amazing Grace.
Amazing grace / how sweet the sound, that saved a wretch like me /
I once was lost, but now I’m found / was blind but now I see.
“Ero cieco ma ora vedo”. Ciò è accaduto ancora una volta con “this terrible tragedy”.
Come nazione, in questa terribile tragedia, Dio ci ha visitato con la sua grazia, perché ci ha consentito di vedere dove eravamo stati ciechi. Ci ha dato la possibilità, dove ci eravamo perduti, di ritrovare la parte migliore di noi stessi. Certo non ce la siamo guadagnata, questa grazia, con il nostro rancore e la noncuranza, con la miopia e la paura reciproca – ma ci è stata data lo stesso. Ce l’ha data lo stesso. Ce l’ha data ancora una volta. Ma sta a noi ora farne l’uso migliore, ricerverla con gratitudine, dimostrarci degni di questo dono.
Per essere degni del dono, dobbiamo agire sul male che finalmente vediamo, fare qualcosa. E allora: troppo a lungo siamo stati ciechi all’offesa che la bandiera confederata rappresenta per tanti nostri concittadini – ora lo vediamo. Troppo a lungo siamo stati ciechi alle ingiustizie del sistema penale… Troppo a lungo al pregiudizio razziale… Troppo a lungo alla violenza che le armi ci portano in casa… Ora vediamo. E fare qualcosa significa “esprimere la grazia di Dio”.
“Eravamo ciechi ma ora vediamo”. Il passaggio dal soggetto singolare a quello plurale indica il passaggio dalla conversione individuale alla politica, all’azione politica, alle scelte politiche. Ma chi è esattamente quel “noi”? La risposta è in una delle principali commutazioni di registro linguistico che attraversa tutta l’orazione. Obama comincia con noi membri della chiesa nera (“we don’t make those distinctions”), poi noi afro-americani, poi noi cristiani (“we do not earn grace”), poi noi americani di ogni fede e nessuna fede, per finire qui – con noi “as a nation”.
Dalla comunità nera alla comunità nazionale. Il code-switching testuale è accompagnato, sottolineato, rafforzato da quello vocale e gestuale. E dunque il discorso, questo discorso di Obama più di tanti altri, va visto e ascoltato. Talvolta, soprattutto all’inizio, Obama parla come un predicatore nero (e meridionale), ne adotta gli stili, le pronunce, le cadenze – questi momenti non sono difficili da identificare. Tal’altra, soprattutto alla fine, parla con l’inflessione “standard neutrale bianca” del politico e del professionista, quella che usa alla Casa bianca per rivolgersi a tutti.
Alla fine, con sorpresa di tutti, Amazing Grace – Obama lo canta davvero. Lo canta non meravigliosamente, ma appunto come si canta in chiesa fra confratelli. Un inno che è un importante spiritual afro-americano, ma che è anche uno dei tanti prodotti della contaminazione culturale che ha costruito il mondo transatlantico. Scritto nel tardo Settecento in Gran Bretagna da un uomo di chiesa bianco che era stato trafficante di schiavi prima di essere abolizionista, è diventato uno dei più famosi inni religiosi in lingua inglese. Oltreché, va detto, almeno dagli anni 1960s un successo commerciale crossover.
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