Short Cuts America: il blog di Arnaldo Testi

Politica e storia degli Stati Uniti

Django & Lincoln Unchained

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Nel gennaio 2008, all’inizio della campagna per le primarie democratiche, ci fu uno scambio di battute su chi avesse maggior merito nei successi del civil rights movement  degli anni 1960s. Per fortuna c’era un presidente disposto ad agire con determinazione come Lyndon Johnson, disse la candidata Hillary Clinton – un presidente capace di guidare il Congresso ad approvare le storiche leggi del 1964-65. Per fortuna c’erano coraggiosi movimenti neri che sfidarono i regimi segregazionisti nel Sud, risposero i veterani di quelle battaglie (e lo stesso entourage del candidato Barack Obama) – movimenti capaci di imporre la questione sul piano nazionale. Erano polemiche da campagna elettorale. Avevano ragione entrambe le parti, e se lo dissero alla fine. Entrambi i soggetti, i movimenti dal basso e il presidente dall’alto, erano stati necessari all’impresa. Considerare solo l’uno o l’altro significa vedere metà della storia.

Il “Lincoln” di Spielberg racconta la storia dall’alto di un altro storico cambiamento, la fine della schiavitù, l’approvazione del tredicesimo emendamento della Costituzione, un secolo e mezzo fa. E’ una storia confezionata con taglio documentaristico, un po’ lunga e con alcuni momenti di noia (ma la platea del mio cinema l’ha seguita tutta in inusuale silenzio). Sono due ore e mezzo di manovre politiche, con al centro un Presidente dolente e stanco ma deciso a perseguire l’obiettivo con produttivo pragmatismo. Malgrado alcune escursioni all’aperto, tutto si svolge in interni, nelle stanze della democrazia rappresentativa – ambienti sorprendentemente piccoli, claustrofobici, zeppi di mobili e tende, carichi di tensioni personali e di violenza trattenuta, imbrigliata nelle pratiche parlamentari. Stanze piene di fumo e di uomini bianchi. Questa era, naturalmente, la realtà di Washington. Questa è anche, appunto, solo metà della storia.

“Django Unchained” di Tarantino fa intuire l’altra metà, la storia dal basso e da fuori della fine della schiavitù: la resistenza degli schiavi stessi. Qui tutto esplode nell’aria, e non solo la mansion schiavista nel finale, in una commedia divertente (anch’essa un po’ lunga) e di violenza dispiegata. C’è il grande outdoor, i grandi paesaggi western e southern, le piantagioni. Ci sono gli schiavi e i bianchi cattivissimi, padroni o white trash che siano – l’unico bianco decente è lo straniero tedesco. E c’è il vendicatore nero che più cool non si può. La vendetta, come tutte le vendette tarantiniane, è spettacolare, soddisfacente e liberatoria per il pubblico (gridolini di approvazione in sala). E’ anche pura fantasia, non ci crede neppure il regista, e lo si capisce da come mette in scena le violenze. Mentre la violenza dei bianchi contro gli schiavi è autentica, atroce, e spesso persino nascosta alla vista, quella del vendicatore contro i bianchi è finta, da cartoon, un trionfo di succo di pomodoro. Fantasia, appunto.

I due film sembrano agli antipodi. Il claim in testa al poster di “Django Unchained” – “Life, liberty and the pursuit of vengeance” – è una brillante perversione del linguaggio della Dichiarazione di indipendenza e la negazione delle intenzioni di Abraham Lincoln e del “Lincoln” di Spielberg. Lo slogan, preso sul serio, è la ricetta di tutte le guerre civili, passate, presenti e future; ma si sa che Tarantino non fa sul serio, fa solo fiction, beato lui. Fra i due film, tuttavia, ci sono anche elementi comuni. I protagonisti di entrambi sanno che bisogna sporcarsi le mani per raggiungere lo scopo, lo dicono e lo fanno. Entrambi, alla fine, sono solitari eroi maschili che agiscono in contesti ostili e negativi. In entrambi i film (di autori bianchi), i neri di contorno sono figure un po’ stereotipate, osservatori interessati e passivi, vittime o, almeno in un caso, traditori della razza. Che le cose non stiano solo così lo si intravvede in qualche passaggio. In “Lincoln” ci sono i soldati unionisti neri (che, fra l’altro, accolgono i sudisti in missione diplomatica). In “Django”, il fotogramma finale suggerisce che anche Broomhilda, la moglie liberata, estrae e imbraccia il fucile cavalcando verso l’ignoto.

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Categorie:cinema, schiavitù

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5 risposte

  1. Buongiorno professore, sarei curioso di sapere qual’è stata la sua impressione del doppiaggio di Pierfrancesco Favino come voce del presidente Lincoln? Non ho visto il film in lingua originale, ma ho avuto l’impressione che la figura del presidente, nel film in italiano, fosse penalizzata dall’interpretazione dell’attore romano.

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  2. Professore, ora che sono riuscita a vedermi tutti e due i film (Lincoln e Django) volevo chiederle perchè trova il film di Spielberg di qualità inferiore. Ricordo che a lezione aveva accennato al fatto che le era piaciuto di più Django. A me sono piaciuti entrambi, in Lincoln ho apprezzto l’equilibrio del Presidente e in Django, beh, lo stile. Sono daccordo sul fatto che entrambi i film raccontino punti di vista e lati della storia diversi, vissuti in spazi diversi, in realtà diverse. Sono daccordo anche che i due film parlino di eroi maschili, ma in Lincoln c’è quell’attenzione (che forse rende il film lento) per le piccole battaglie di uomini politici di contorno (battaglie più o meno “legali”), le battaglie che hanno reso possibile l’approvazione del 13° emendamento. Certo in Django, vista anche l’impostazione tarantiniana, era impossibile, un suicidio cinematografico, non rendere l’eroe nero un eroe ma anche lì,cosa strana per Tarantino, è poi il tedesco a fare un gesto davvero eroico, se accettiamo un eroismo senza dinamite. In ogni caso sei ore della mia vita ben spese.

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  3. Ma alla fine sono d’accordo con lei, con tutto quello che dice. Semplicemente, il film di Tarantino mi ha divertito di più dal punto di vista cinematografico, lo stile appunto (e sì che, lui, non lo sopporto). E soprattutto sono d’accordo che, anche per me, sono state sei ore ben spese.

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  1. Una costituzione anti-schiavista (dal 1865) | Short Cuts America

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