Non mi vengono in mente politicians americani che siano ex-magistrati – ma che non ce ne siano non posso giurarci, e su questo chiederei l’aiuto di persone più informate di me. Gli esempi che in genere vengono in mente – be’, quelli sono esempi sbagliati. E naturalmente è opportuno tener conto del fatto che i sistemi giudiziari (al plurale) degli Stati Uniti sono diversi dai nostri. E altrettanto diverso è il sistema politico-elettorale.
Le regole di comportamento per la magistratura sono ovvie. Per i giudici del sistema giudiziario federale c’è un Codice di condotta che prevede la proibizione di ricoprire cariche di partito, di fare discorsi, dare contributi o comunque partecipare a eventi sponsorizzati da forze politiche; e l’obbligo di dimissioni in caso di candidature a elezioni primarie o generali. Il Codice è preparato e amministrato da un organo di autogoverno della magistratura stessa, la Judicial Conference of the United States. Le regole sono formulate in termini ottativi, “un giudice dovrebbe…”, ma ci sono misure disciplinari in caso di violazione. (La Corte suprema ne è esclusa, per ragioni costituzionali.)
Poi ci sono i sistemi giudiziari statali, ciascuno con regole e sanzioni proprie. Ma qui la situazione è più complessa. Perché, a differenza dei giudici federali, che sono nominati dal Presidente degli Stati Uniti con il consenso del Senato, i giudici di molti stati sono elettivi. Nella maggioranza dei casi sono sottoposti a scrutinio elettorale anche i membri delle locali corti supreme, secondo vari meccanismi – alcuni partisan (cioè, i candidati si presentano in liste con etichette di partito, come in Texas e Illinois), altri nonpartisan (senza etichette), altri ancora con voti popolari di conferma. Insomma, qui i giudici già devono essere capaci di raccogliere voti, di fare una campagna elettorale più o meno sobria.
E tuttavia, gli esempi che vengono in mente di persone che passano dalle aule dei tribunali alla politica sono di altro tipo. Non riguardano la magistratura giudicante, cioè il potere giudiziario indipendente, bensì le procure, cioè la pubblica accusa, che sono già organi tutti politici. Per dire: Rudolph Giuliani, prima di diventare sindaco di New York, era procuratore federale per quel distretto, nominato dal presidente Reagan, parte integrante del suo ministero della giustizia. Il governatore di New York Andrew Cuomo si è fatto le ossa, e la fama, come procuratore generale dello stato: carica elettiva statale, per la quale ha fatto campagna elettorale come candidato Democratico, dopo aver vinto le primarie del suo partito. Nessuno dei due era un giudice (e ce ne sono parecchi come loro).
Paradossalmente, gli esempi da noi meno noti, ma più importanti, di vero travaso di personale fra i poteri dello stato, hanno riguardato percorsi opposti: dalla politica alla magistratura giudicante, dal potere esecutivo o legislativo a quello giudiziario. Prendiamo la Corte suprema, e prendiamo solo i Chief Justices dell’ultimo secolo. Tutti costoro, eccetto il Chief Justice attuale, John Roberts, hanno avuto alle spalle esperienze politiche in cariche elettive o di governo: chi come ministro, chi come deputato o governatore. Il primo della serie che ho esaminato, William Howard Taft, era addirittura un ex-presidente degli Stati Uniti. Insomma, qui sono stati i politici a diventare giudici.
Un’ultima osservazione sul sistema elettorale. Un giudice che si dimetta per fare politica, non può vivere di rendita. Nel sistema maggioritario uninominale, deve vincere nel collegio in cui si candida e in cui, come tutti i candidati, deve risiedere. Come tutti, deve quindi guadagnarsi i voti uno a uno, andare per strade, piazze, osterie e negozi, incontrare gente, stringere mani, baciare bambini. E’ un duro lavoro. Per dire, un esempio simile ma di un’altra categoria: è lo stesso duro lavoro che ha dovuto fare la professoressa di Harvard Elizabeth Warren quando, quest’anno, ha deciso di correre in Massachusetts per un seggio in Senato. Ha vinto, ma ha dovuto trasformarsi in politician. Non ha goduto di un posto sicuro in una lista bloccata in un sistema elettorale proporzionale.
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