Short Cuts America: il blog di Arnaldo Testi

Politica e storia degli Stati Uniti

Che cosa voleva bin Laden, e la trappola che ci siamo costruiti da soli

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Appunti basati su Nelly Lahoud, Bin Laden’s Catastrophic Success, Foreign Affairs, September-October 2021. Qui c’è il testo completo.

L’idea di colpire gli americani a casa loro, in modo clamoroso, era coltivata da Osama bin Laden fin dagli anni 1980s. All’origine c’era la questione palestinese, ma poi il progetto si era esteso, era diventato grandioso. Non solo i palestinesi ma tutti i musulmani venivano visti come vittime dell’occupazione straniera occidentale. Bin Laden e i suoi uomini, al Qaeda insomma,volevano iniziare una campagna di violenza rivoluzionaria che avrebbe dovuto cambiare gli equilibri geopolitici mondiali, creare o meglio, ai loro occhi, ricreare la “umma” storica, cioè la comunità di tutti i musulmani tenuta insieme da una unica autorità politica. Un passo importante in questa direzione doveva essere dare un “colpo decisivo” agli Stati Uniti, “distruggere il mito della invincibilità americana”. Ciò avrebbe costretto gli Stati Uniti a uscire dal mondo musulmano e quindi consentito alle forze buone dell’Islam, i jihadisti, di combattere meglio la giusta guerra contro i “regimi blasfemi” che sotto l’egemonia americana vi prosperavano. 

Le cose andarono in tutt’altro modo.

La decisione di attaccare in grande stile l’11 settembre si basava su un calcolo che si rivelò clamorosamente sbagliato. Bin Laden non pensò mai che gli Stati Uniti avrebbero risposto con la guerra. Pensava piuttosto che nel paese ci sarebbe stata un’ondata di proteste tipo quelle contro la guerra in Vietnam, e quindi una grande pressione sul governo perché ritirasse i suoi eserciti dai paesi a maggioranza musulmana. Così quando gli americani dissero “guerra” e invasero l’Afghanistan, bin Laden era impreparato, non aveva alcun piano per proteggere la sua organizzazione. Molti suoi capi furono uccisi, altri si rifugiarono all’estero, nelle aree tribali del Pakistan e almeno per un periodo in Iran (l’Iran, un luogo dove “regna Satana”, anche perché finirono nelle sue carceri segrete). Bin Laden scomparve per tre anni, interrompendo i contatti anche con i suoi compagni. Al Qaeda andò in pezzi  e non recuperò più l’efficienza di una volta. 

Tutto ciò un po’ si sapeva già e un po’ emerge con nuova chiarezza dall’analisi dei documenti trovati nella casa dove bin Laden fu ucciso dalle forze speciali americane il 2 maggio 2011, a Abbottabad, in Pakistan. Negli anni successivi, in particolare nel 2017 la CIA ha declassificato pezzi consistenti di questi documenti, cartacei e digitali, decine di migliaia di pagine, che riguardano le comunicazioni interne di al Qaeda fra il 2000 e il 2011 e le comunicazioni personali di bin Laden con i suoi famigliari fino alle ultime settimane di vita. Forniscono quindi informazioni su intenzioni e valutazioni precedenti all’11 settembre ma anche successive, sugli effetti della “guerra al terrore”.  L’analisi è stata fatta da Nelly Lahoud, una senior fellow dell’International Security Program di New America, una think tank di Washington. Una parte è stata pubblicata nel fascicolo corrente di Foreign Affairs; l’intero malloppo è in un libro annunciato per la primavera prossima, The Bin Laden Papers (Yale UP).

Dell’articolo  di Foreign Affairs sto riassumendo qui alcuni passaggi, attenendomi strettamente al testo. 

Dopo l’inverno del 2001 al Qaeda rialzò la testa grazie all’invasione americana dell’Iraq nel 2003, all’abbattimeno del brutale regime di Saddam che era stato brutale anche con i jihadisti, allo sbandamento dell’esercito, alla guerra civile che seguì. In una lettera del 2004 un compagno di avventure scrive a bin Laden: “Quando Dio ha saputo delle nostre afflizioni e della nostra impotenza, ha aperto la porta della jihad a noi e all’intera umma in Iraq”. Un altro gli scrive nel 2007: saremmo scomparsi se non fosse per le nostre “sorprendenti” vittorie in Iraq “che hanno alzato il valore delle azioni di al Qaeda”: e’ stato “il modo di Dio di ripagare il popolo della jihad per i sacrifici che ha fatto seguendo la sua via”. Nel frattempo era nato un nuovo capo locale, il giordano al-Zarqawi, che aveva fuso il suo gruppo con quello di bin Laden creando al Qaeda in Mesopotamia. E il brand era stato adottato da altri gruppi nella Penisola Araba, in Somalia, nel Maghreb. 

Sembrava un ritorno al successo, ma anche no. Tutte queste organizzazioni erano autonome, facevano quello che volevano, anche in Iraq, tanto più dopo l’uccisione di al-Zarqawi da parte degli americani nel 2006. Inoltre, diceva bin Laden, i loro attacchi producevano “inutili vittime civili” fra gli stessi musulmani, e il “pubblico musulmano era disgustato”. Bin Laden si sentiva ed era isolato. Il suo ultimo tentativo (sembra un po’ patetico) di affiancare in qualche modo le rivoluzioni arabe scoppiate nell’inverno 2010-2011 fu interrotto dal raid delle Navy Seals che lo uccise. Da lì cominciò un’altra storia, dominata dalla presenza dell’ISIS e dalla sanguinosa esperienza del “califfato” in Iraq e Siria, su cui Lehoud si sofferma ma noi no. Almeno per il momento mi interessa la storia delle origini… 

Metto piuttosto in evidenza due osservazioni, una che è nelle parole di Lehoud e l’altra che è nelle parole (più “politiche”) di Michelle Goldberg  sul New York Times dell’altro giorno. Lehoud scrive: guardando indietro è impressionante quanto nel 2001 bin Laden sia riuscito a influenzare la politica globale al di là dei suoi disegni, in modo paradossale: “cambiò in effetti il mondo – anche se non nei modi che aveva voluto lui”. Michelle Goldberg scrive: gli Stati Uniti avevano tutti i dati utili (e tutte le ragioni) per dichiarare vittoria alla fine del 2001, dopo aver preso di sorpresa bin Laden e smantellato al Qaeda. Mission accomplished, e finirla lì. “Bin Laden non ha costruito la trappola in cui è caduta l’America. Ce la siamo costruita da soli”.

Categorie:Cultura politica, violenza

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