Short Cuts America: il blog di Arnaldo Testi

Politica e storia degli Stati Uniti

Promemoria per il ventennale dell’11 settembre 

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Per prima cosa, ricorderei una banalità: gli anniversari vanno usati con prudenza, in particolare da chi ha responsabilità di governo e se ne serve per prendere decisioni di governo, per dare loro rilevanza simbolica. Non sempre le cose vanno nel verso giusto. Negli ultimi mesi il presidente Biden ha fatto del ventennale dell’11 settembre 2001 un uso imprudente, proponendolo con largo anticipo e con gran boria come momento simbolico positivo di chiusura di un impegno di guerra, della lunga guerra cominciata allora in Afghanistan. Con gran boria e, direi, con arroganza politica, ha dato per scontato che tutto sarebbe andato come previsto, cioè come aveva previsto lui, cioè come aveva deciso lui. E ora si ritrova a commemorare l’evento nel contesto di un sentimento pubblico che non è segnato da un sospiro di sollievo (“siamo fuori della never-ending war“) ma da domande e polemiche sull’abbandono drammatico e disordinato di Kabul. A me personalmente, per quel che vale la mia opinione, pensata da lontano, sembra che la decisione di venir via sia stata giusta, che averla resa davvero operativa abbia richiesto coraggio presidenziale, che gran parte dei problemi di agosto derivino dagli accordi trumpiani di Doha dell’anno scorso. E che gran parte di quei problemi sarebbero stati comunque inevitabili in qualunque momento. 

Tuttavia l’effetto disastro mediatico e, agli occhi di molti, l’effetto pubblica umiliazione nazionale e internazionale mi sembrano evidenti. 

Credo che Biden fosse concentrato sulle importanti riforme politiche e sociali che ha in cantiere. E che abbia voluto liberarsi in fretta dell’eredità di una guerra senza obiettivi precisi, senza una fine in vista, che per gli Stati uniti poteva diventare solo più pasticciata, e che lui stesso disapprova da tempo. Una guerra che poteva deragliare il lavoro della sua amministrazione, un po’ come la guerra in Vietnam aveva rovinato la vita al presidente Johnson e alla sua Great Society. Paradossalmente, per evitare questo destino, Biden si è procurato una situazione che, almeno nelle fotografie, senza proporre analogie avventate, ricorda proprio quella di Saigon nel 1975, la fuga in elicottero dall’ambasciata americana.  E che in effetti potrebbe davvero deragliare la sua amministrazione, minarne l’autorevolezza nel perseguire la sua agenda, un’agenda politica ambiziosissima.  

L’evento 11 settembre, enorme, orribile, spettacolare, è ancora negli occhi di quelli di noi che sono in età da aver avuto, allora, occhi consapevoli. E tuttavia il suo significato di lungo periodo, per gli americani e per tutti, è dato non dall’enormità di quell’ora ma da quanto successo subito dopo. E cioè dalla decisione del governo di Bush Junior di dire la parola “guerra”, di parlare di “un attacco all’America”, non di un atto terroristico per quanto straordinario, e di rispondere con una “guerra al terrore”, non con operazioni di polizia internazionale. Quella decisione, che avrebbe portato le truppe americane a invadere l’Afghanistan e poi l’Iraq, nel secondo caso in nome di una plateale menzogna, stava dentro la percezione di un trend illusorio: l’idea che dopo il crollo dell’Unione sovietica gli Stati uniti fossero rimasti l’unica superpotenza, una “iperpotenza” come disse un francese probabilmente invidioso, un’idea che sembrava confermata dal successo della prima guerra del Golfo del 1990-91. Si trattava dunque di tornare sullo stesso terreno medio-orientale, ma cambiando paradigma e scopo. Non più impresa multilaterale sotto l’egida dell’Onu contro una chiara violazione della legalità internazionale, per ristabilire l’ordine violato (il Kuwait indipendente): questa era l’idea di leadership americana proposta da Bush Senior per il mondo post-sovietico. Bensì, ora, war of choice, una serie di guerre per scelta in una prospettiva sostanzialmente unilateralista per cambiare l’ordine esistente, per democratizzare il Medio oriente, per “esportare la democrazia”, per fare nation building: questa era l’idea di leadership americana che era coltivata dei consiglieri più vicini a Bush Junior e che, un po’ a sorpresa, divenne anche la sua, accesa dall’evento terribile (biblico) e dai suoi impulsi religiosi.

La convinzione di essere iperpotenza aveva dato alla testa, era diventata senso di onnipotenza.

Naturalmente niente andò come doveva andare, per mille motivi. O forse tutto andò come doveva andare: male. Comunque una volta lì divenne praticamente impossibile mollare la presa, venir via. Un po’ perché mettere i “boots on the ground”, come dicevano i maschi alfa di allora, produce reazioni a catena, escalation di numeri, aspettative e coinvolgimenti difficili da sbrogliare. Un po’ perché il mondo stava cambiando tutto intorno. Il tentativo più ambizioso di uscire dalla palude medio-orientale, il famoso pivot to Asia immaginato dal presidente Obama e da Hillary Clinton segretaria si Stato, ne è un esempio. “Il futuro sarà deciso in Asia, non in Afghanistan o Iraq, e gli Stati uniti saranno al centro dell’azione”, così disse Clinton nel 2011. Asia stava per Cina, il concorrente emergente. Il punto è che, nel frattempo, per fare i conti con la Cina non era più sufficiente, per Washington, guardare al proprio ovest, al Pacifico e attraverso il Pacifico. Perché anche la Cina guardava al suo ovest, cioè al cuore dell’Asia e al Medio oriente e al Mediterraneo. E lì c’era un nuovo ineludibile terreno di competizione. Gli Stati uniti avrebbero continuato a guardare anche a est. Prima Trump e ora Biden sono andati dove Obama non aveva osato andare. E ora che Biden ha tagliato il nodo gordiano, ha dichiarato che non ci saranno più guerre per fare regime change, per fare nation building, e che l’attenzione è tutta sulla Cina, si tratta di vedere dove il confronto avverrà, quale sarà il terreno scelto e chi lo sceglierà.

Una cosa è indubbia, credo. La differenza di fondo che definisce il nuovo mondo sta in queste cifre: vent’anni fa la Cina rappresentava il 3% dell’economia mondiale, oggi è passata al 14%, dal sesto al secondo posto in classifica, a ridosso degli Stati uniti scesi dal 26% al 21%. Il trend del potere americano, il trend vero, non è verso l’onnipotenza, che non c’è mai stata, ma verso un declino relativo. Magari verso il passaggio dall’American century all’ Asian century?

E’ difficile immaginare la politica interna americana dell’ultimo ventennio a prescindere dallo shock dell’11 settembre, che ha unito i cittadini e poi ne ha acuito le divergenze. La polarizzazione dello scontro politico-sociale non era una novità, ma ancora non se n’era percepita tutta la nuova portata. L’iconica bandiera a stelle e strisce alzata dai vigili del fuoco sulle rovine fumanti di ground zero è stata per un attimo emblema di pena e lutto condivisi, di solidarietà; un mese dopo si dice che sia partita su una portaerei per il Medio oriente, verso il teatro di guerra afghano, ed è tornata terreno di conflitto simbolico, agitata da parti contrapposte per opposte ragioni. Questioni come il patriottismo e la guerra (e le relative teorie cospirative), lo stato di diritto (Guantanamo, Abu Ghraib, le torture segrete) e il surveillance state (che spia e controlla i propri cittadini), lo status degli immigrati o almeno di certi immigrati (arabi, islamici, di pelle scura, sospettati di essere agenti di diversità nemiche, infiltrate), il diritto di portare armi (in difesa da minacce esterne e interne e private), sono diventati brucianti. Le conseguenze di due altri eventi straordinari, la grande recessione del 2008-2010 e la pandemia del 2020 ancora in atto, hanno intrecciato a questi altri conflitti già in corso ma, di nuovo, radicalizzati: conflitti materiali e culturali, di lavoro, di razza e di gender, sul climate change e sull’ambiente, sulla storia e sulla memoria nazionale, sui significati del nazionalismo, sul ruolo del governo federale (pericolo pubblico o mano amichevole?). Alla fine sono emerse anche spinte anti-democratiche, fantasie insurrezionali come quelle del 6 gennaio, fantasie paranoiche, estremismi violenti.

Il tutto trasferito in una contrapposizione frontale, cristallizzata e ostile fra i due partiti principali, come raramente s’è visto nel paese.

In effetti, anche ai vertici della repubblica, raramente si sono viste oscillazioni così accentuate di personalità e posizioni politiche. Mi sembra difficile immaginare qualcosa di più improbabile del contrasto fra Barack Hussein Obama, il primo presidente di colore in una società razzialmente divisa, con quel nome imbarazzante nel mezzo di conflitti con nemici islamici, colto e ironico e softspoken, con un linguaggio e una famiglia esemplari per correttezza politica – e Donald Trump, idolo dei White supremacists, xenofobo e sessista, incolto e orgoglioso di esserlo, sguaiato urlatore di semplici ed efficaci cose di destra, eccitatore e complice di istinti eversivi. I partiti dei due presidenti hanno offerto un contrasto non dissimile per filosofia pubblica e programmi, composizione sociale e dislocazione geografica, l’un contro l’altro armati, indisponibili al compromesso, sull’orlo della delegittimazione reciproca, nemici più che avversari o concorrenti, in questo riflettendo diffusi feelings dei loro rispettivi elettori. Per alcuni versi Obama e Trump sono le due facce della stessa medaglia, nel senso che la presidenza Trump è esistita perché è esistita la presidenza Obama: presidente nero e reazione bianca. E lo stesso vale per democratici e repubblicani. I due partiti sono espressione di un paese che sta cambiando e più che cercare un centro vitale sembra migrare verso poli opposti, anche geograficamente separati, stati blu (democratici) e stati rossi (repubblicani), città blu e campagne rosse, aree blu metropolitane, multietniche ed economicamente dinamiche, aree rosse provinciali, bianche e statiche. Un paese con un trend demografico preoccupante per chi pensa di essere fra i gruppi perdenti.

Una cosa è indubbia, credo. La differenza di fondo che definisce il nuovo mondo sta in queste cifre: nel 2000 i bianchi di discendenza europea erano il 75% degli americani, nel 2020 sono il 62%. Lo dicono i censimenti, e il trend punta verso una maggioranza non bianca.

L’emergere della Cina come concorrente degli Stati uniti nella politica mondiale e i cambiamenti strutturali interni al paese sono i principali lasciti del ventennio post-11 settembre. Sono anche i punti centrali dell’agenda con cui Joe Biden è arrivato alla Casa bianca. L’agenda si fonda su una scommessa di tipo sistemico e implica una rottura non solo con il recente passato ma anche con un’intera fase semisecolare di storia nazionale. La scommessa è che la presidenza Trump rappresenti la fase terminale, esausta e degenerata del ciclo politico-sociale conservatore inaugurato cinquant’anni fa. E che quindi, dal punto di vista della politica interna, sia auspicabile, possibile, necessario un ritorno alla grande progettualità pubblica precedente, al ruolo centrale del governo federale, a prima che le pulsioni anti-stataliste toccassero in maniera diversa entrambi i partiti. Insomma, l’epoca della “fine del big government” è finita, i problemi accumulati hanno messo in pericolo la stessa convivenza civile, ed è l’ora che il nuovo partito democratico, forte nelle aree di crescita del paese, multietnico e multirazziale, se ne faccia carico per tutti. In politica estera il recupero proposto è quello della tradizione multilateralista che, dopo le tentazioni unilateraliste repubblicane, particolarmente disordinate nella versione “America First” trumpiana, sia attenta a costruire una leadership americana consensuale e rispettata nell’ambito delle organizzazioni internazionali universali come l’Onu, degli accordi collettivi su questioni vitali (tipo il clima), delle alleanze politiche.

Le alleanze fra le democrazie, dice Biden – per contrastare l’espansionismo dei regimi autoritari, senza per questo nutrire velleità di esportazione di alcunché, di nation building in casa d’altri.  

Si tratta di scommesse sistemiche, come ho detto, che a me sembrano avere solide fondamenta ma che, ovviamente, possono essere scompigliate da eventi imprevisti come il caos drammatico dell’exit afghano. Dove dell’approccio multilaterale promesso in generale si è visto poco o niente: Biden, che non era da solo in Afghanistan, mei momenti decisivi ha fatto tutto da solo. Mentre la capacità da lui mostrata finora di gestire la spinta riformatrice interna, navigando gli scogli parlamentari, deve fare i conti con la rinvigorita opposizione di chi lo vede come un diminished president. Anche i tassi di approvazione popolare misurati dai sondaggi, piuttosto buoni fino a luglio, sono in discesa. D’altra parte, come dicono i cinici la memoria degli elettori è corta, la guerra era comunque impopolare ecc. ecc. Staremo a vedere. Alla fine della storia, come diceva il poeta, this is what leadership is all about.

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Categorie:Americanismo

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  1. Rassegna 10.09.21 - Stefano Ceccanti

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