In una lunga intervista al New York Times (qui) di qualche giorno fa, Alexandria Ocasio-Cortez dice, fra le tante, un paio di cose che vorrei sottolineare perché mi sembrano interessanti – sul ruolo suo e della sinistra dentro il partito democratico.
In primo luogo AOC risponde alle critiche dei deputati democratici centristi che biasimano la sinistra per la perdita di alcuni seggi alla Camera, in collegi difficili dove parole d’ordine radicali avrebbero spaventato gli elettori più moderati. Risponde dapprima nel modo più prevedibile, dicendo che non è vero, che le proposte politiche progressiste non hanno danneggiato nessuno, che i sostenitori di Green New Deal e Medicare for All hanno mantenuto i loro seggi, e che d’altra parte nessun candidato democratico ha fatto campagna elettorale parlando di socialismo o “defund the police”, slogan che appartengono piuttosto ai movimenti. (I critici centristi in verità concordano con questo, citano piuttosto candidati che quegli slogan movimentisti hanno dovuto subire, che non sono riusciti a prenderne le distanze, che, dato il clima generale, se li sono trovati appiccicati addosso dagli avversari.)
Ma la risposta più sostanziosa è un’altra, ed è anche la più abile e produttiva perché taglia fuori le dispute ideologiche e mette il dito nella piaga, nella dimensione organizzativa. Molti candidati democratici, dice AOC, hanno perso o rischiato di perdere perché non ci sanno fare. Non sanno usare gli strumenti della mobilitazione, dall’attivismo di quartiere al caro vecchio door-to-door fino all’attivismo sui social media. Alcune campagne elettorali, dice, sono state imbarazzanti per pochezza e dilettantismo. Ed è tutto il partito che non sa fare, aggiunge. Tanto è vero che a suo tempo Barack Obama è stato costretto a crearsi un proprio apparato esterno, per combinare qualcosa. La leadership democratica, per anni, non ha fatto investimenti nel lavoro di base, ha quindi costretto i gruppi grassroots a caricarselo tutto. Quindi ora non venga a lamentarsi.
In secondo luogo, al partito organizzato in maniera debole, inadeguata, un punto dolente che è autentico, AOC propone se stessa e la propria esperienza come soluzione. Dice di avere una conoscenza diretta di quello che non va, e di essersela procurata con la sua militanza politica. In un modo, in effetti, piuttosto curioso e paradossale. Se l’è procurata infatti sfruttando le debolezze del partito per portare al successo, tramite le primarie, la sua candidatura e quelle di altri esponenti della sua sinistra dentro e contro l’establishment del partito stesso. Conviene leggere tutto il passaggio centrale.
Ho passato due anni a cacciare dei democratici dai loro seggi. Per due anni non ho fatto che sconfiggere dei candidati sostenuti ufficialmente dal Democratic Congressional Campaign Committee. E’ così che sono arrivata in Congresso. E’ così che abbiamo eletto Ayanna Pressley. E’ così che ha vinto Jamaal Bowman. E’ così che ha vinto Cori Bush. Ed è per questo che conosciamo le profonde vulnerabilità nel modo in cui i democratici conducono le loro campagne.
Ocasio-Cortez esplicita dunque con orgoglio come si è formata la vecchia “squad” eletta nel 2018 e riconfermata bene nelle elezioni congressuali di questo 2020: AOC stessa a New York City e Ayanna Pressley a Boston, insieme a Ihlan Omar a Minneapolis e Rachida Tlaib a Detroit. E’ sempre così che ci sono state le nuove acquisizioni come Jamaal Bowman ancora a New York e Cori Bush a St.Louis-Ferguson, aggiungendo magari Marie Newman a Chicago. E’ così che si sono affermati anche progressisti con qualche anno di anzianità in più, pre-AOC ma comunque sostenuti da Bernie Sanders e da tutta la galassia democratica e fiancheggiatrice liberal, i co-chair del Congressional Progressive Caucus, Pramila Jayapal e Mark Pocan. Eletti, anche loro, come tutti gli altri e le altre, in bastioni democratici progressisti che più zoccolo duro non si può, Seattle la prima e Madison, Wisconsin, il secondo.
E infatti qui sta il problema, nei bastioni progressisti, nello zoccolo duro. Queste esperienze sono certamente utili ai fini delle fortune interne della sinistra, un po’ sull’esempio dei Tea Party nel partito repubblicano del 2010. Dimostrano che, con le dovute mobilitazioni, la sinistra è capace di vincere nelle primarie di partito in certi collegi urbani, anzi metropolitani, che sono anche ultrasicuri per i democratici – dove poi i vincitori delle primarie, chiunque essi siano, vincono da sempre (da decenni) le elezioni generali con maggioranze enormi. Con percentuali che in tutti i casi sopra citati veleggiano dal 60% all’80% dei voti, fino a Ayanna Pressley che a Boston non ha avuto oppositori, i repubblicani neanche si sono presentati. Resta da capire se le stesse esperienze possono essere modello per tutto il partito. Se possono essere esportate in territori ostili, in collegi competitivi, dove gli avversari ci sono e sono incalzanti, dove sia necessario guadagnare al partito nuovi elettori, conquistare seggi che prima erano di altro colore, allargare la geografia sociale del consenso.
Tenendo conto che le diversità politiche, di opinione ma anche di visione, e quindi le frizioni e le lotte intestine e le critiche e recriminazioni che ne derivano, sono inevitabili e forse necessarie in un partito che vuole essere una tenda larga con una molteplicità di compiti per alcuni versi contradittori. Il partito democratico non ha infatti come scopo operativo primario quello di accumulare voti a livello nazionale, cosa che, per Costituzione, non serve a niente di pratico. Deve invece vincere in una serie cospicua di stati, spesso molto diversi fra loro, per eleggere il presidente oppure una maggioranza in Senato. E deve vincere in una serie cospicua di collegi più piccoli, spesso molto diversi fra loro, per conquistare una maggioranza alla Camera dei rappresentanti. Non basta essere uno, per governare, bisogna essere molti.
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