La polarizzazione politica degli ultimi decenni ha agito su entrambi i partiti, ma in maniera diversa, facendone due partiti diversi per risorse strategiche e tattiche disponibili. I Repubblicani sono diventati il partito di un’America piuttosto omogenea, bianca, anziana, religiosa, rurale, molto conservatrice, e minoritaria. I Democratici rappresentano invece un’America assai diversificata per gruppi etnico-razziali, regionali e d’interesse, urbana, secolarizzata, giovane, generalmente ma non tutta progressista, e maggioritaria. Mentre tre quarti dei Repubblicani si definiscono conservatori, i Democratici liberal sono solo metà del partito, il resto sono moderati. I Repubblicani possono quindi usare strategie d’urto molto spostate a destra, per vincere a destra. I Democratici devono invece muoversi con maggiore cautela, tenere conto delle molteplici constituencies non solo di sinistra ma anche di centro, se vogliono vincere in un sistema politico-elettorale che sembra costruito per penalizzarli.
Così la racconta Ezra Klein in un lungo articolo sul New York Times, derivato dal suo nuovo libro, Why We’re Polarized (Simon & Schuster, in uscita a fine gennaio).
Vediamo qualche dettaglio in più.
A differenza dei Repubblicani, i Democratici sono una coalizione molto ampia (una “tenda troppo grande”, secondo la deputata Dem Alexandria Ocasio-Cortez, dove non si capisce bene chi sia di troppo, se i centristi o lei). Per vincere le elezioni nazionali i Dem devono quindi convincere gli afro-americani della South Carolina e i bianchi del New Hampshire, i cattolici irlandesi di Boston e gli agnostici di San Francisco, gli ebrei di New York e i musulmani del Michigan, gli hacker della Silicon Valley e la working class ispanica, i lavoratori sindacalizzati del Midweste le donne middle-class dei suburb, quelle bianche e quelle di colore. Devono ispirare i progressisti senza allarmare i moderati , e viceversa, blandire i moderati senza far scappare troppi progressisti. Sono quindi costretti al compromesso politico e programmatico, alla complessità del messaggio, cioè a ciurlare un po’ nel manico. In un ambiente discorsivo molto più aperto di quello Repubblicano alla varietà delle fonti d’informazione, alla critica, alla petulante scontrosità, alla rissa intra-partito.
Malgrado – o grazie a – tutto ciò, i Democratici sono maggioranza nel paese. Ma il sistema politico costituzionale non li aiuta. Hanno preso più voti dei Repubblicani nelle elezioni presidenziali del 2000 e del 2016, e tuttavia i presidenti eletti sono stati due Repubblicani. Hanno preso più voti, e alla grande (milioni di voti), nelle ultime due tornate elettorali in Senato, nel 2018 e nel 2016, e tuttavia i Repubblicani sono maggioranza in Senato. Questo perché l’America non è una democrazia nazionale. Nel sistema politico federale, in particolare in Senato e nel Collegio elettorale presidenziale, conta chi ottiene la maggioranza stato per stato. E qui, per riuscire a vincere negli stati più conservatori, per riuscire a battere la macchina da guerra Repubblicana con i suoi messaggi molto più semplici e radicali, i Democratici devono fare appello agli elettori conservatori. In effetti non solo a quelli centristi ma anche a quelli un po’ alla destra del centro.
Altrimenti niente.
Il sistema esistente produce una distorsione evidente. Mettiamola così. Si calcola che dal 2040, fra vent’anni, il 70 percento degli americani vivrà nei 15 stati più urbanizzati e popolosi. Questo significa che il 70 percento degli elettori, tipicamente favorevoli in maggioranza ai Democratici, anzi formanti la core constituency della maggioranza nazionale Democratica, sarà rappresentato solo da 30 senatori. Mentre il restante 30 percento di elettori, spalmato nelle vaste regioni rurali del paese, sarà rappresentato da ben 70 senatori, potenzialmente e probabilmente Repubblicani. Il governo della minoranza, in Senato e nella elezione del presidente (e quindi, fra l’altro, nella formazione della Corte suprema), che già in qualche misura esiste, sarà esasperato. E ciò non è di buon augurio per la salute della repubblica. E’ un sistema iniquo ma anche, dice Klein, potenzialmente pericoloso per la sua stessa legittimità politica.
Una soluzione a questo pasticcio? Klein, come altri osservatori disperati e di fervida fantasia, propone radicali riforme politiche e costituzionali: l’abolizione del Collegio elettorale presidenziale e l’elezione diretta del presidente, l’abolizione del gerrymandering, la registrazione automatica (a carico dell’autorità pubblica) dei cittadini nelle liste elettorali, l’estensione della reppresentanza in Congresso al District of Columbia e a Puerto Rico, e infine, ebbene sì, l’adozione della rappresentanza proporzionale (con un conseguente sistema multi-partito? Qui Klein non affronta la questione). Naturalmente si tratterebbe di un terremoto. Con un bel Comma 22, tuttavia. Per adottare le riforme desiderate, che renderebbero più difficile la vita ai Repubblicani, ci vogliono leggi del Congresso, in alcuni casi emendamenti alla Costituzione – che dovrebbero essere approvate da maggioranze parlamentari Repubblicane. Che non aspirano certo al suicidio politico.
I Dems dovranno continuare a giocare al caro vecchio difficile gioco di sempre?
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