Nella storia più che bisecolare degli Stati Uniti ci sono stati 13 presidenti nei confronti dei quali qualche membro della Camera dei rappresentanti ha chiesto formalmente l’impeachment. Di questi tredici, ben sette, cioè la maggioranza, sono presidenti della contemporaneità, da Richard Nixon in poi. A guardar bene sono quasi tutti i presidenti da Nixon in poi, con l’eccezione del mezzo presidente Gerald Ford e di quel sant’uomo di Jimmy Carter. Il deputato Democratico Henry B. González, per esempio, è stato un denunciante seriale, ha proposto articoli di impeachment sia contro Ronald Reagan per lo scandalo Iran-Contra che contro George Bush Senior per la prima Guerra del Golfo – senza fortuna però.
(González cercò l’impeachment anche del chairman della Federal Reserve, Paul Volcker, per motivi che qui non vi interessano.)
Nella storia più che bisecolare degli Stati Uniti, ci sono state quattro procedure di impeachment più serie e drammatiche, o con più fortuna se volete, giunte a uno stadio più avanzato. In due casi le procedure sono arrivate fino ai voti positivi della Camera e ai “processi” davanti al Senato, finiti però in un nulla di fatto (Andrew Johnson nel 1868 e Bill Clinton nel 1998), in un terzo caso l’affare ancora in corso è stato interrotto dalle dimissioni preventive del presidente (Nixon nel 1974). Nel quarto caso (il trip in corso di Donald Trump) c’è appena stata la messa in stato d’accusa della Camera – al Senato si vedrà. Di questi casi, ben tre su quattro, ancora una volta la stragrande maggioranza, appartengono alla contemporaneità.
Tre (tentativi di) impeachment presidenziali in meno di mezzo secolo, il quarto un secolo e mezzo fa.
Che cosa c’è, nell’America contemporanea, che può suggerire qualche spiegazione di questa insistenza a procedere per via, diciamo così, “giudiziaria” nei confronti del capo dell’esecutivo? Che cosa ha spinto tanti rappresentanti del popolo a pensare una politics by other means per liberarsi di un inquilino della Casa bianca appartenente al partito avverso? Possibile che i presidenti di oggi siano più crooks di quelli di ieri, più proni di loro ad abusi di potere, ostruzioni di giustizia, cover-up di losche malefatte? Vi sembra improbabile, no? Credo infatti che una spiegazione più convincente debba essere cercata altrove, debba prendere in considerazione la polarizzazione politica che ha caratterizzato la vita pubblica americana negli ultimi cinquant’anni, lo scontro sempre più feroce fra i partiti, cioè fra i due partiti maggiori. A cui corrisponde una polarizzazione nell’elettorato, cioè nella popolazione in generale, fra quelli come voi e me. Una polarizzazione che è politica ma anche esistenziale, perché riguarda questioni di policies ma anche e forse soprattutto idee fondamentali sulla società, sulla cultura, sulla razza.
Nell’America di una volta che qualcuno sembra rimpiangere c’erano, al di là delle ovvie leggi e procedure costituzionali, delle norme di convivenza non scritte che, più o meno, facevano funzionare il sistema. Moderazione fra i partiti, per esempio, reciproco riconoscimento di legittimità, rispetto dei ruoli di maggioranza e opposizione, forme di auto-controllo e self-restraint. Norme di tolleranza che ora sono saltate, in un processo di aggressività reciproca che è cominciato decenni fa, che è diventato evidentissimo con la presidenza Obama, che la presidenza Trump ha ulteriormente accelerato ma, appunto, non causato. Molte ricerche mostrano che ciò non riguarda solo il ceto politico, ma tutti. Gli americani dei due opposti schieramenti tendono a vedersi come nemici, non avversari, in percentuali non banali si vedono l’un l’altro come un pericolo per la repubblica, non si amano.
Neanche si sposerebbero fra di loro, in linea di principio.
Nell’America di una volta che qualcuno sembra rimpiangere, la buona creanza istituzionale e le norme condivise vivevano in effetti in un contesto di esclusione. Finché la comunità politica era quasi tutta euro-bianca, Democratici e Repubblicani avevano molto su cui dividersi ma anche molto in comune, non ritenevano il partito avverso una minaccia esistenziale. E’ stata l’inclusione razziale generata dal civil rights movement, dalle leggi sui diritti civili e politici, dall’apertura alle nuove migrazioni della metà degli anni Sessanta a rompere l’incantesimo. Gli afro-americani sono diventati elettori effettivi, il Sud è stato democratizzato, nuovi cittadini di origine non europea si sono aggiunti ai vecchi, e la politica nazionale si è sempre più basata sulla divisione razziale e la contrapposizione ideologica. Con i Repubblicani sempre più conservatori (e bianchi) e i Democratici prevalentemente liberal (e multirazziali).
A chi dovrebbe assomigliare l’America – sembra essere diventata una questione di vita o di morte.
E quindi capite bene: impedire in tutti i modi a chi è al governo di governare, se siete opposizione, magari detronizzandone il capo – ovvero le grida di “lock them up!” all’indirizzo degli avversari, qualunque ruolo istituzionale rivestano – sono manifestazioni estreme ma coerenti di questa estrema partisanship.
Dite che tutto ciò ricorda il clima degli Stati Uniti post-Guerra civile, dopo l’abolizione della schiavitù, quando le controversie più accese (accese e violente) riguardavano i diritti dei neri finalmente liberi e il loro posto nella repubblica? Be’, sì, in effetti, pur senza esagerare, c’è qualcosa – dopo tutto, fu quello anche un periodo di massima polarizzazione politica e il contesto del primo impeachment presidenziale di qualche conseguenza.
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