Short Cuts America: il blog di Arnaldo Testi

Politica e storia degli Stati Uniti

American Dems: le opportunità di un partito di maggioranza e abbastanza diviso, com’è normale che sia

I Democratici americani hanno, come spesso accade nella vita, una opportunità e due problemi. L’opportunità è che i loro elettori attivi sembrano essere, oggi come oggi, una solida maggioranza nel paese. I problemi hanno a che fare con le loro imperfette strategie elettorali e con il fatto, normale in un grande partito, che sono divisi al loro interno.

Che gli elettori Democratici, in termini numerici aggregati, siano maggioranza sembra assodato. Alle recenti elezioni congressuali di medio termine del 2018, alla Camera dei rappresentanti, il totale dei loro voti è stato di dieci milioni superiore al totale dei Repubblicani (61 milioni a 51 milioni). Naturalmente i Dems hanno anche vinto la maggioranza nell’assemblea legislativa, e quindi i conti tornano, le cose vanno come dovrebbero andare.

In effetti nel 2018 i Democratici sono stati maggioranza anche alle elezioni per il Senato degli Stati Uniti, o per meglio dire per quel terzo di seggi senatoriali (34 per la precisione) che quell’anno era in ballo. Anche qui il distacco con i Repubblicani è stato netto, undici milioni di voti (51 milioni contro 40 milioni). E qui c’è un paradosso, perché in questa tornata elettorale i Dems hanno in effetti perso due seggi in Senato a favore dei Reps. E’ chiaro che di questo risultato è responsabile il sistema elettorale, con quel gigantesco gerrymandering che è la rappresentanza federale paritaria degli stati.

La cosa si ripercuote nelle elezioni presidenziali, grazie all’elezione indiretta del Presidente tramite il collegio elettorale presidenziale. Anche qui, nel 2016, i Dems erano maggioranza, una maggioranza di ben tre milioni di voti (63 milioni contro 60). Anche qui, come al Senato, a vincere sono stati gli altri. Come al Senato, e come in altri momenti anche alla Camera, sembra che i dirigenti Dem dell’ultima generazione abbiano difficoltà a gestire, a volgere a loro vantaggio le caratteristiche del sistema elettorale, che è quello che è (frammentato e gerrymandered) da sempre, mica da ieri. E questo è il loro primo problema. Un po’ dipende dal loro elettorato, ultra-concentrato negli stati e nei collegi ultra-popolosi urbani. Ma un po’ è anche colpa loro, delle loro strategie, visto che in certi collegi o stati hanno perso per il rotto della cuffia, per disattenzione verrebbe da dire, guardando ad alcune vicende specifiche.

E poi  c’è il problema delle loro divisioni interne, che vanno al di là dei battibecchi fra Nancy Pelosi, AOC & The Squad, i deputati moderati, i vecchi gloriosi notabili, i corporate Democrats delle invettive della sinistra. O meglio, che a questi battibecchi stanno dietro e danno senso. Per dire una banalità: i Dems sono un partito grande (nel senso delle dimensioni) e quindi sono benedetti e maledetti dal fatto che non tutti i loro elettori ed esponenti la pensano allo stesso modo, ci mancherebbe.

Una recente analisi del Pew Research Center (vedi il grafico qui sopra) dice che la maggioranza relativa degli elettori Dem e degli indipendenti a loro vicini oggi si considera liberal, progressista. E che la loro percentuale, ora al 46%, quasi la metà, è cresciuta parecchio dal 29%, meno di un terzo, del 2003. Urrà per i progressisti, dunque, che sono stati la forza dinamica di quest’ultimo quindicennio, ridimensionando le altre componenti: i moderati scesi moderatamente dal 44% al 39% e soprattutto i conservatori, che invece quando precipitano precipitano davvero, dal 24% al 14%.

Urrà per i progressisti, dunque, purché essi non vedano solo il loro bicchiere mezzo pieno. Anche oggi, con tutta la loro avanzata, sono soltanto quasi la metà dell’elettorato del loro partito, il che vuol dire che più della metà è comunque composto di non progressisti. Procedere insieme, tenere insieme le truppe, marciare e colpire più o meno uniti, elaborare un programma che soddisfi abbastanza e tanti se non del tutto tutti, trovare una personalità che sia un punto di equilibrio – è sempre un’impresa eroica, un miracolo della natura e un incidente della dea fortuna, di cui si trovano sagge spiegazioni razionali con il senno di poi.

A proposito del programma. Ma, si dice, la stragrande maggioranza dell’elettorato Dem è comunque d’accordo su alcuni punti specifici che derivano dall’agenda nazionale progressista, che ha imposto la sua egemonia – purché non li si chiami progressisti, purché non si metta loro l’etichetta (so much per l’egemonia!). Vero. Sempre secondo il Pew Research Center, tre quarti degli elettori Dem (quindi molti di più della quota liberal) concordano su priorità come ridurre i costi delle cure mediche, rafforzare ed estendere Medicare, migliorare il sistema scolastico, difendere l’ambiente. Percentuali simili guardano con favore ai diritti degli immigrati e dei gay, alla lotta alle diseguaglianze che colpiscono soprattutto le minoranze di colore.

Ma detto questo è detto quasi niente, in un partito di massa di centro-sinistra. Perché le differenze e i contrasti riguardano proprio i modi di definire e affrontare in concreto queste issues. Per dire: come rafforzare ed estendere il sistema sanitario può implicare tante cose, da fare ulteriore ricorso al mercato delle assicurazioni private, fino a un sistema pubblico statalizzato, e tutto quello che sta nel mezzo. Qui si gioca la partita. E poi c’è comunque quel quarto di elettori che per qualche motivo non è d’accordo, e chissà con quale intensità e di che tipo, con le priorità di questa agenda. E se mancano loro all’appello, addio elezioni.

E’ chiaro che progressisti e moderati sono necessari gli uni agli altri. Nelle sedi di discussione si rinnovano gli argomenti del 2016 e di sempre. La leadership del partito deve sapere che senza il voto di noi progressisti (di noi di sinistra, di noi di Sanders o Warren) eventuali candidati presidenziali moderati non andranno da nessuna parte. Vale anche il contrario, naturalmente, è difficile da mandar giù ma è così: senza il voto di noi moderati un eventuale candidato di sinistra progressista farà bella figura forse, ma neanche lui andrà da qualche parte. Come sciogliere questo dilemma, beati voi che lo sapete – se lo sapessi io, non sarei qui a scrivere questo blog, sarei a cercare di far milioni nella giungla dei political consultants, pistole in vendita.

Categorie:Electoral process, partiti

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