La crisi del governo degli Stati uniti, che ha portato allo shutdown dell’apparato federale, ha radici profonde, built-in nella stessa Costituzione del paese. La parola chiave, facilmente ricavabile dal manuale del piccolo costituzionalista, è separazione dei poteri. E la conclusione è netta: a una crisi di questo tipo non esiste una soluzione costituzionale. La Costituzione non ci ha pensato.
La Costituzione, d’altra parte, potrebbe ben dire, come il procace cartoon di Jessica Rabbit nel film Who Framed Roger Rabbit, “Non è colpa mia, è che mi hanno disegnato così”. La macchina immaginata dai padri costituenti nel 1787 si basa sul timore dell’autorità politica concentrata – sia in un singolo “tiranno” esecutivo che nella majority rule legislativa, il governo della maggioranza senza contrappesi. La separazione dei poteri è appunto una risposta e un rimedio a questo timore. Per dirla meglio: una separazione dei poteri in effetti molto radicale. Il potere esecutivo, cioè il Presidente, e il potere legislativo, cioè il Congresso, o meglio ancora i due rami del Congresso, hanno infatti fonti di legittimazione del tutto indipendenti.
Nella versione democratizzata di oggi, i tre organi sono eletti da constituencies popolari diverse: il Presidente dalla complessa procedura indiretta che non sto a riassumere qui; i senatori da collegi unici statali; i membri della Camera dei rappresentanti da collegi più piccoli ritagliati dentro gli Stati. I tre organi sono eletti anche in tempi diversi, con scadenze diverse: ogni quattro anni il Presidente, ogni due tutti i rappresentanti, ogni sei i senatori (ma un terzo di loro è rinnovato ogni due anni). E quindi: Presidente, senatori e deputati possono dire di esprimere tutti la sovranità popolare ma, per così dire, di tre popoli distinti – ciascuno organizzato a suo modo, e non nel medesimo momento “storico”.
Se il risultato di questo gioco di complicati incastri non è politicamente omogeneo, se accade che i due partiti principali si dividano il controllo degli organi di governo, c’è il divided government, un fatto ricorrente nella storia del paese. Di solito risolto con il compromesso politico fra le parti, lento, faticoso, concordato su ogni singola misura, ma comunque dinamico. Se i due partiti sono ideologicamente polarizzati e hanno agende inconciliabili, c’è invece il gridlock – il blocco del sistema. E’ quello che succede oggi: i repubblicani, conservatori e molto sbilanciati a destra, hanno la maggioranza al Senato (ma neanche lì hanno i 60 voti necessari a battere un possibile ostruzionismo dell’opposizione). I democratici, con le loro vocazioni liberal, hanno appena conquistato la maggioranza alla Camera. E repubblicano è un presidente odiatissimo dai liberals.
In questo caso ogni accordo sembra impossibile, è considerato tradimento, fino a colpire una misura vitale come la legge di bilancio – tenuta in ostaggio dalla questione irrisolta del muro anti-immigrati al confine con il Messico, che il presidente vuole finanziare a tutti i costi, e che i democratici sono decisissimi a osteggiare. E qui c’è il dramma, la crisi è reale. Perché, senza un compromesso politico, la crisi può concludersi solo con la resa di una delle parti oppure, ipoteticamente, con il caos. Non c’è un arbitro che sciolga il nodo, non ci sono, come nei sistemi parlamentari, mozioni di sfiducia, dimissioni di governi, ricorsi a elezioni anticipate. Insomma: non esiste una soluzione costituzionale alla crisi. E’ la Costituzione, bellezza.
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Tag:costituzione americana, separazione dei poteri, shutdown
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