Vecchie fotografie di cinquant’anni fa, proprio malridotte. Malridotte alle origini, voglio dire, le uniche sopravissute di una decina di pellicole a un lungo viaggio in autostop. Sarà stata la pioggia, o il sole battente, o quella volta che lo zaino mi cadde tutto dentro uno stagno, sotto un ponte, e ci rimase anche un po’. O chissà. Fatto sta che ci sono questi pochi frammenti che sembrano alluvionati, probabilmente anche stampati a suo tempo senza molta cura, chissà se da qualche parte ci sono ancora i negativi. Frammenti sbiaditi che non riescono a raccontare una storia intera, di un luglio 1968 passato a Praga.
Quando mi capita di rivedere le celebri immagini della mattina del 21 agosto di quell’anno, ho sempre l’impressione di averli conosciuti personalmente, quei ragazzi e quelle ragazze intorno e sopra ai carri armati russi, di fronte agli smarriti carristi russi. E la prova, ne sono sicuro, è nelle mie fotografie che sono andate perdute. Qualcosa si indovina anche in queste, il tempo passato a bivaccare sul ponte Carlo (loro, tutti bob dylan in erba con il berretto per chiedere gli spiccioli), un incontro amichevole e forse un flirt sulla romantica Vltava, la posa scherzosa di un amico davanti ad automobili fantastiche o mia davanti a una targa Marx-Engels-Lenin-qualcosa che non riesco più a decifrare.
Non ci sono qui i giorni e le notti in strada e nei club, nelle birrerie del buon soldato Scveik a bere ottima birra e a mangiare orribili fette di pane fritto, in piazza Venceslao, a discutere fino all’alba, in piazza Venceslao anche con gli italiani di Radio Praga, vecchi comunisti che erano sicuri che i carri armati sarebbero arrivati. Tutti ne erano sicuri, nei cessi il graffito di benvenuto era “stara ruska kurva”. L’allegro comunista greco in esilio con cui dividevo una stanza d’ostello parlava un po’ di russo, mi disse, “stai a vedere eh” mentre eravamo in un pub, disse qualcosa a voce alta che mi tradusse come “finalmente arriveranno i russi”, dopodiché ce la battemmo in fretta prima che gli sguardi ostili diventassero altro.
Avevamo vent’anni.
Noi ventenni occidentali, atteggiandoci a reduci di tutte le battaglie di quell’anno già consacrato come anno fatale, si parlava di socialismo, i nostri coetanei di lì ci guardavano strano. Nel nucleo fisso della nostra piccola brigata internazionale, oltre al comunista greco che ne divenne subito il leader carismatico, c’erano due trotskisti parigini che ancora puzzavano di bruciato delle barricate di maggio, un radicale berlinese che parlava sempre del quasi-assassinato Rudi Dutschke, e due o tre studenti dissidenti belgradesi, ancora socialisti, ancora yugoslavi. Alcuni di loro sono in due fotografie, in una più o meno militanti con i pugni chiusi, nell’altra a riposo e sgarrupati e ci sono anch’io – l’unica non troppo malridotta perché non mia, mi fu spedita a casa più tardi, da chiunque fosse il fotografo.
Sono partito da Praga il 1 agosto, ero arrivato in autostop da Vienna e in autostop me ne sono andato verso la Germania, la Germania federale per essere precisi. C’era la guerra fredda, e ai confini cecoslovacchi, in entrata e in uscita, la si poteva vedere bene, nelle torri di controllo e nel filo spinato.
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