
The Battle of Wyoming, or the Wyoming Massacre (in the Pennsylvania frontier), July 3, 1778
Recensione per L’Indice, maggio 2018, di Alan Taylor, Rivoluzioni americane. Una storia continentale, 1750-1804, Einaudi, Torino, 2017, edizione originale American Revolutions, 2016, traduzione italiana di Dora Di Nunno.
Il risvolto di copertina di questo bel volume, ricalcando la presentazione dell’editore americano, dice una cosa un po’ enfatica: «La rivoluzione americana è spesso raffigurata come un evento sorto da nobili principi, la cui chiave di volta, la Costituzione federale, fornì l’impalcatura ideale a una nazione prospera e democratica. Con questo libro, Alan Taylor ha scritto un autorevole ma ben diverso racconto della fondazione della nazione americana».
In effetti è da tempo, da parecchi decenni direi, che non si scrivono più storie così patriottiche, nazionaliste, celebrative, almeno da parte di scrittori seri e di storici di professione. Tuttavia Taylor, storico serissimo, vincitore di due premi Pulitzer, professore di storia della University of Virginia con cattedra intitolata a Thomas Jefferson (uno dei maschi bianchi schiavisti che compaiono nelle sue pagine), ha fatto bene a proporre una sintesi analitica e narrativa di tutto ciò che la ricerca storica, in tutte le sue subdiscipline, ha scavato e prodotto e interpretato intorno al grande sconvolgimento transatlantico di fine Settecento. Una sintesi eccellente, fondata su estese fonti primarie e secondarie, con una poderosa bibliografia.
Questo è un sequel, si potrebbe dire. Taylor prosegue il lavoro iniziato con un altro testo di sintesi del 2001, American Colonies, che esplorava le storie diverse e convergenti degli insediamenti britannici in Nord America fino alle guerre imperiali di metà Settecento. E lo faceva con una grande ampiezza di sguardo geopolitico (i rapporti fra gli imperi europei attraverso l’Atlantico) e di sguardo politico-sociale (i rapporti fra le varie popolazioni residenti, e cioè gli espatriati euroamericani, i vari eserciti imperiali, le nazioni native, gli schiavi deportati dall’Africa).
Con la stessa ampiezza e molteplicità di sguardi affronta ora il tema delle American Revolutions, cioè della rivoluzione come fenomeno plurale e multistrato, dai diversi significati per diversi soggetti. Il sottotitolo suggerisce una prospettiva temporalmente lunga, semisecolare, e geograficamente continentale, cioè non solo centrata sugli eventi e sui protagonisti della ristretta fascia lungo la costa atlantica. Il termine ad quem, 1804, sembra essere stato scelto proprio per includere nel quadro luoghi e istanze solo apparentemente lontane, cioè la nascita della seconda repubblica americana, la repubblica nera di Haiti, figlia di una rivoluzione di schiavi – un incubo per gli euroamericani, un sogno per gli afroamericani.
Taylor mostra come i litigi di una parte dei residenti bianchi delle colonie con il Parlamento di Londra avessero radici nelle competizioni degli imperi (britannico, francese, spagnolo) per la conquista del continente, in particolare dell’immensa valle del Mississippi, a cui si aggiunse la competizione con la madrepatria degli stessi coloni britannici, attratti dalla valle e da ciò che stava al di là. In questi giochi e poi in quelli dell’insurrezione e della guerra d’indipendenza entrarono anche le potenti confederazioni indiane, con sofisticate manovre diplomatiche e militari. E certamente entrò la questione degli schiavi, della loro liberazione ovvero della permanenza della schiavitù (e della tratta) come istituzione.
L’insurrezione indipendentista, ovviamente, non fu l’azione concorde di un popolo unito nel cacciare lo straniero tiranno: questo succede solo nelle favole nazionaliste. Fu piuttosto una brutale guerra civile in cui i patrioti (cioè i coloni che avevano rinnegato la fedeltà all’impero per trasferirla a una nuova patria ancora inesistente) si batterono non solo contro l’esercito britannico ma anche contro i lealisti (cioè i loro vicini di casa che all’impero erano rimasti fedeli). Ci furono violenze e massacri, in particolare nelle regioni di frontiera. Dove i patrioti avevano la meglio, i lealisti erano incarcerati in carceri letali, espropriati, messi alla berlina, messi a tacere. In nome della libertà, osserva Taylor, i patrioti terrorizzavano i loro oppositori. Come in ogni rivoluzione che si rispetti.
La guerra per l’indipendenza e la rottura dell’ordine precedente aprirono un vaso di pandora di pretese sociali e richieste di diritti da parte di soggetti appartenenti a tutti gli strati della gerarchia coloniale, che in effetti misero in discussione quelle forme specifiche di gerarchia, nelle città, nelle campagne, fin dentro le famiglie. Taylor riporta un paio di lettere di John Adams della primavera dell’anno fatale 1776, in cui il più conservatore dei rivoluzionari, fra i divertito e il preoccupato, descrive ciò che, più o meno, stava in effetti avvenendo. Scrive Adams:
«Ci è stato rimproverato che la nostra lotta ha indebolito ovunque il potere dei governi. Che i bambini e gli apprendisti sono disobbedienti – che le scuole e i college sono diventati più turbolenti – che gli indiani offendono i loro guardiani e i negri diventano sempre più insolenti nei confronti del loro padroni. […] Non ci sarà fine a tutto questo. Nuove rivendicazioni verranno portate avanti. Le donne pretenderanno di votare. I giovanotti dai 12 ai 21 anni penseranno che i loro diritti non siano sufficientemente rispettati, e qualunque soggetto che non ha neanche un centesimo pretenderà di avere la stessa voce in capitolo di chiunque altro in tutte le leggi dello stato. Questa attitudine tende a confondere e a distruggere tutte le distinzioni, e a ridurre tutti i ranghi a un unico comune livello».
Queste attitudini c’erano davvero, quasi tutte, e il loro conflagrare cambiò il panorama. Il risultato, alla fine della guerra, con l’indipendenza e la formazione di nuove istituzioni, fu una serie di polities statali e una polity federale vibrante e partecipata, divisa da aspre passioni di partito, non del tutto egualitaria dal punto di vista civile e politico ma più egualitaria di quella prebellica, comunque più egualitaria di ogni altra al mondo, basata su nuove gerarchie, aggressiva nella spinta espansiva economica e territoriale, sempre più individualista. Era una polity repubblicana, certo non una democrazia (un anacronismo in quegli anni). Per essere tutto questo, era anche marcatamente maschile e bianca, e ostile alle differenze.
Le donne ne erano fuori di fatto e di diritto. I non-bianchi ne erano le vittime. La schiavitù restò, incardinata sottotraccia nel testo stesso della Costituzione, rafforzata dove era vantaggiosa, cioè negli stati meridionali di cui divenne l’istituzione «peculiare», il cuore dell’ordine economico e sociale. Per ciò che riguarda le nazioni native, la cosa era semplice: l’indipendenza degli Stati Uniti fu l’inizio della fine della loro indipendenza. Una dopo l’altra, man mano che la frontiera bianca avanzava verso ovest, furono sconfitte e quasi distrutte. Il razzismo nei confronti dei popoli di colore si stava affermando ovunque.
E i grandi ideali? Tutti gli uomini sono creati eguali? La vita, la libertà e la ricerca della felicità? Tom Paine e Common Sense? “We, the People”? Ovviamente ci sono e fanno la loro parte, come Taylor ricorda in questa pagina iniziale con qualche problema di traduzione italiana: «Bisogna però anche considerare che da tale stravolgimento nacque una nuova vivacità [“creativity” nell’originale] politica e culturale. Data la terribile guerra civile al cuore della rivoluzione, il conseguimento dell’indipendenza, dell’unità e la costituzione di un governo repubblicano appaiono ancora più straordinari. I padri fondatori dovettero confrontarsi con nemici terribili e divisioni interne, oltre che con i loro stessi dubbi, paure e controversie. Pur non essendo stati all’altezza di garantire l’uguaglianza e la libertà universali, sposarono [“established” nell’originale] ideali per cui vale la pena di combattere».
Un passaggio che, in effetti, è più epico di quanto forse l’autore intendesse. Vi si narra di come nei vortici di terribili conflitti, brutti, sporchi e cattivi, una generazione di uomini imperfetti e spesso con le peggiori intenzioni, con molti dolori e molte imperfezioni, poté creare e stabilire principi importanti – magari persino «nobili», fecondi, dinamici, capaci di trascendere le intenzioni dei loro creatori, di estendere il cerchio del noi, di includervi soggetti improbabili e imprevisti, di essere aperti a sviluppi di lungo periodo.
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