Short Cuts America: il blog di Arnaldo Testi

Politica e storia degli Stati Uniti

Le razze negli Stati Uniti: tutte le parole dei censimenti dal 1790 a oggi

 

question6I censimenti contano ciò che esiste, le persone e le cose. Ma come ben si sa (grazie anche a Imagined Communities, il bel libro dell’appena scomparso Benedict Anderson), nel momento in cui contano, i censimenti nominano anche le cose e le persone, danno loro un nome e quindi le creano. Un recente mappa interattiva del U.S. Census Bureau (qui) consente di giocare, in maniera sintetica, con le definizioni di razza e in misura minore di etnìa che il governo federale degli Stati Uniti ha applicato alla popolazione americana nel corso della sua storia, dal 1790 fino all’ultima rilevazione del 2010.

Negli Stati Uniti il censimento decennale ha un compito costituzionale: contare gli abitanti dei vari Stati per consentire una corretta distribuzione territoriale dei deputati alla Camera dei rappresentanti, una distribuzione che ogni dieci anni deve essere adeguata ai continui movimenti demografici. La società americana, inoltre, è stata ed è una società coloniale e post-coloniale, fatta di coloni e immigrati dall’Europa e poi dal mondo intero, di schiavi africani deportati e poi liberati, di residenti nativi. Le definizioni ufficiali e burocratiche di questi gruppi hanno avuto funzioni di policy di vario tipo, dall’esclusione di ieri all’affirmative action di oggi. E hanno prodotto categorie sociali che sono ancora con noi.

Uno sguardo anche rapido al loro variare e affermarsi nel tempo è in effetti un pezzetto di storia culturale del paese. Tenendo conto di un fatto importante. All’inizio e per un periodo lunghissimo sono stati gli operatori sul campo del censimento ad attribuire la razza a ogni singolo individuo, sulla base delle loro percezioni: il colore della pelle, la lingua, il nome. Dal 1970 in poi sono invece gli stessi individui ad attribuirsela, in una forma di auto-identificazione libera da qualsiasi interferenza governativa. Ed è significativo che, almeno lì per lì, ciò non abbia prodotto cambiamenti sostanziali nei risultati. Sembra che le categorie burocratiche e sociali siano diventate anche categorie mentali degli stessi cittadini.

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Dunque. Nel 1790 le categorie previste erano solo tre: Free White Females and Males, All Other Free Persons e Slaves (che naturalmente implicava “africani”). Da allora molte cose sono cambiate – molte tranne una. La categoria di “bianco”, che riguarda la componente tuttora maggioritaria nella popolazione, è rimasta stabile; in più di due secoli ha avuto una sola modifica formale, nel 1850. Da allora è White e basta, e ha assorbito in sé tutti gli immigrati di origine europea, anche quelli di cui, nella cultura e nella società, si dubitava che “bianchi” lo fossero davvero: per esempio gli irlandesi e gli italiani. Comprende anche i residenti di origine mediorientale o nordafricana, per esempio araba.

La categoria che designa gli schiavi africani e i loro discendenti (e anche gli attuali immigrati dall’Africa subsahariana) è invece, per contrasto, quella più storicamente tribolata, e ne ha ben donde. E’ cambiata spesso. Gli Slaves del 1790 si erano già distinti in Slaves and Free Colored Persons nel 1820, riflettendo l’aumento del numero di neri liberi ma anche il fatto che i neri liberi erano comunque una razza a parte. Poi nel 1850, quindi prima dell’abolizione della schiavitù, si era passati a Black e Mulatto, senza indicazione della condizione di servitù ma cominciando a misurare quanto “sangue nero” una persona di colore avesse.

Si stava andando verso una società razzializzata e poi esplicitamente razzista anche se non più schiavista. E infatti nel 1890 la tendenza raggiunse lo zenith. Per disposizione del Congresso, influenzato dalle diffuse teorie razziste pseudo-scientifiche a base biologica, in quell’anno si chiese di specificare se si trattasse di Black (tre quarti o più di sangue nero), Mulatto (da tre ottavi a cinque ottavi), Quadroon (un quarto) e Octoroon (un ottavo). Proprio come avveniva in molte colonie europee nei Caraibi. Negli Stati Uniti, tuttavia, ciò ebbe vita brevissima. Dieci anni dopo ci fu il ritorno a un unico Black (Negro or of Negro Descent).

E’ stato nel 1900, dunque, che è comparso il termine Negro, che è rimasto da solo o in compagnia di altre qualificazioni fino ai giorni nostri (non solo nel censimento ma anche nel linguaggio pubblico più decoroso di neri e bianchi). Accanto a esso ricomparve Mulatto per un paio di volte, nel 1910 e 1920. E infine dopo gli anni Sessanta del Novecento c’è stato il ritorno di Black (dal 1970) e il battesimo di African American (dal 2000). In questi ultimi casi sono state accolte le nuove auto-definizioni di orgoglio di razza presenti nella comunità nera.

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C’è poi la denominazione razziale che ha accompagnato l’arrivo di altri popoli di colore dall’Asia orientale e dal subcontinente indiano. Nel 1870 comparve la categoria Chinese e poi, nel 1890, Chinese, Japanese insieme. In essa sono sono stati successivamente inclusi Filipino e Korean (dal 1920), Vietnamese (dal 1980), e infine un generico Asian o Other Asian. Fra il 1920 e il 1940 c’era anche Hindu ma non andava bene perché, caso unico nella storia del censimento, era una denominazione religiosa – che infatti è stata più tardi sostituita da Asian Indian.

Già, e gli indiani americani, i nativi delle Americhe – nord, centro e sud? Ci sono anche loro fin dal 1860 sotto la categoria di Indian, che nella seconda metà del Novecento è diventata American Indian e si è estesa a comprendere Aleut, Eskimo e Alaska Native. E ci sono anche, in un’altra categoria separata, i nativi delle isole dell’Oceano Pacifico, prima come Hawaiian dal 1960 e più tardi anche come Samoan, Guamanian oppure Other Pacific Islander.

Gli ispanici sono una faccenda a parte, e piuttosto recente, essendo recente la loro migrazione di massa. Mexican si era affacciato nel 1930 per scomparire subito; prima di allora i messicani erano contati come bianchi. E’ ritornato nel 1970 con più varianti: non solo Mexican ma anche Puerto Rican, Cuban e altre specifiche nazionalità, e poi nelle rilevazioni successive Mexican-American e Chicano fino al generale o generico Hispanic e Latino. Qui tuttavia c’è una complicazione. La categoria non riguarda una identificazione di razza ma di origine etnica o nazionale, per cui chi è Hispanic può essere di qualsiasi razza ed essere contato anche fra quelle – per esempio bianca, nera, amerindiana.

A parte Hispanic, dunque, le categorie primarie di razza sono oggi sei. Per riassumere sinteticamente: White, Black or African American, American Indian and Alaska Native, Native Hawaiian and Other Pacific Islander e, per tutti gli altri colori del vasto e colorato mondo, Some Other Race. A lungo sono state mutualmente esclusive: si poteva sbarrare solo una casella, appartenere a un’unica razza. Dal 2000 non è più così. Agli individui è data l’opzione di identificarsi in più razze, di sbarrare due o più caselle. Nel 2010 l’hanno fatto in 9 milioni, circa il 3% della popolazione. E’ una quota molto inferiore agli americani che hanno effettivamente un background multirazziale. Ma qui si tratta di una scelta culturale, della rivendicazione di una identità multipla. E non tutti sono interessati a farla.

Per dire, il presidente Barack Obama, probabilmente il più celebre leader mondiale di razza mista, figlio di madre bianca e padre africano, nel censimento del 2010 ha dato un’unica riposta: African American. E anche questa è stata una scelta.

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Categorie:Cultura politica

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