C’è una battuta che circola negli Stati Uniti, probabilmente diventata popolare durante la campagna elettorale del 1968. Ed è questa: “Puoi vendere un candidato presidenziale come vendi una saponetta”. Indica disillusione e cinismo di fronte a una novità non gradita: l’uso delle tecniche della pubblicità commerciale in politica. Indica un po’ di disprezzo per i politici che si piegano alla loro logica, che diventano venditori di se stessi e della loro merce. Indica anche orgoglio e senso di onnipotenza di chi quelle tecniche maneggia per mestiere. Credo che la battuta sia fuorviante, e che cinismo, disprezzo e orgoglio siano malriposti. In una democrazia elettorale antica come quella americana, non saprei in altre, la battuta può essere facilmente rovesciata. Là si è cominciato a vendere saponette come, in precedenza, si vendevano candidati presidenziali (già ne ho parlato qui).
Le agenzie pubblicitarie commerciali entrano nell’arena politica elettorale praticamente nel momento in cui nascono nella loro forma moderna, subito dopo la Prima guerra mondiale. Nel 1920 il repubblicano Warren Harding si affida a una di esse, che tratta la sua candidatura presidenziale come faceva con la birra o i fagioli in scatola: con testimonials e pubblicità comparativa. Nel 1952 è un altro repubblicano a prestarsi per primo a spot televisivi, Ike Eisenhower. Nel 1968 Richard Nixon avverte i suoi ad men: “ditemi quello che devo fare e lo farò”. Nel frattempo, negli anni 1930s, è F.D. Roosevelt a raccontare agli americani, nelle sue fireside chats radiofoniche, con linguaggio chiaro e semplice, cioè semplificato e con il giusto spin positivo, il contenuto dei suoi progetti e le ragioni delle sue decisioni. (La radio non consente ovviamente l’uso di tabelle esplicative, come farà Ronald Reagan in televisione – ma l’intenzione comunicativa è quella.)
Tutti costoro usano strumenti nuovi ma non fanno niente di nuovo. Tutte le tecniche della pubblicità commerciale americana del Novecento di cui parla Nando Fasce in un suo libro dell’anno scorso, sono già presenti nelle campagne elettorali ottocentesche. La promozione di brands nazionali, riconoscibili in tutto il paese, prima della Coca Cola, la fanno i grandi partiti di massa fin dalla loro nascita negli anni 1830s. La pubblicità comparativa è il cuore di ogni competizione elettorale, della propaganda nelle strade e sui giornali. I messaggi pubblicitari reason-why, in cui si spiega la bontà del prodotto, sono il cuore dei programmi dei partiti. I messaggi di atmosfera, in cui la bontà del prodotto è suggerita obliquamente con associazioni simboliche, sono già nell’abbinamento dei candidati non solo a programmi ma a immagini evocative (capanne di legno, boschi, praterie, croci d’oro).
La pubblicità e i pubblicitari di professione arrivano dopo. Copiano, anche nella comunicazione commerciale. Perché la pubblicità, prima di essere l’anima del commercio, è l’anima della politica – e sì, della politica democratica.
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Il libro citato è Ferdinando Fasce, Le anime del commercio: pubblicità e consumi nel secolo americano (Carocci 2013). Grazie a Fabrizio Ribelli e Alessandro Tapparini per aver segnalato su Facebook le associazioni fra il recente slideshow di Matteo Renzi e le presentazioni di Reagan nel 1981 – e, in modo diverso, di Obama all’inizio di quest’anno.
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