Barack Obama è stato vittima delle aspettative eccessive che i liberal ripongono nella capacità della presidenza di attuare, per forza propria, energiche politiche riformatrici. E quindi, di conseguenza, è stato vittima delle loro delusioni.
I presidenti riformatori del passato, gli inventori della presidenza moderna come agente di cambiamento, non hanno mai fatto affidamento solo sulla potenza della loro carica (comunque limitata, per ragioni costituzionali e politiche). Hanno agito nel contesto, e con lo stimolo critico e l’aiuto sostanziale, di vigorosi movimenti sociali costruiti dal basso. E si trattava di movimenti con radici indipendenti e vite lunghe e pre-esistenti, con rapporti inquieti ma alla fine fruttuosi con il partito di riferimento. Proprio questo contesto ha contribuito in maniera decisiva, con tutti gli (inevitabili) compromessi della vita, ai loro successi.
E’ stato così per il repubblicano Teddy Roosevelt, a cui l’attuale presidente ha reso un esplicito e malizioso omaggio bipartisan, e per il democratico Woodrow Wilson, che avevano dietro di sé un esteso progressive movement. Dietro il secondo Roosevelt, FDR, a cui l’attuale presidente è stato accostato nei giorni iniziali della gloria e della speranza di un nuovo New Deal, di una nuova politica dei “cento giorni”, c’era un forte labor movement, capace di contrattare con durezza sia nei luoghi di lavoro che nel mercato politico. Dietro Lyndon Johnson, c’era il civil rights movement. Non c’è stato nulla di tutto questo dietro il primo mandato della presidenza Obama, e i liberal non se ne sono resi pienamente conto.
Il movimento popolare più diffuso, visibile e attivo a emergere in questi anni è stato il Tea Party: conservatore, di destra, e quindi impegnato a bloccare l’agenda presidenziale. E a bloccarla c’è riuscito, nelle elezioni di medio termine del 2010, in stretta collaborazione con il partito repubblicano. I movimenti sulla sinistra dello spettro politico, sindacati, ambientalisti, donne, gruppi LGBT, minoranze razziali, si sono dati da fare nei mesi dell’entusiasmo elettorale del 2008, ma poi hanno lavorato in ordine sparso, o sono stati a guardare. Non c’è stato nessun movimento di massa a fare lobby intorno alla riforma sanitaria, a stimolarla, indirizzarla, sostenerla nelle sue varie possibili versioni.
Il fatto che, dopo il 2008, il presidente abbia trascurato e lasciato morire di inedia, senza risorse e senza motivazioni, le sue organizzazioni grassroots, trattandole solo come macchine elettorali – spiega qualcosa ma non tutto. Evidentemente c’erano e ci sono poche risorse e motivazioni autonome alla base del sistema, in grado di nutrirsi da sole. E l’opinione liberal, attivissima sui mass media vecchi e nuovi, ha coltivano nella sostanza un sua inerzia politica voyeuristica, sempre più critica e scontenta degli (inevitabili) compromessi dell’amministrazione. Salvo spaventarsi a morte in queste ultime settimane, quando l’altalenante dinamica della campagna elettorale ha cominciato a rendere pensabile l’impensabile.
Occupy Wall Street non è stato il movimento che mancava. Ha introdotto nel dibattito pubblico nuovi temi, in particolare l’allarme per le diseguaglianze socio-economiche del paese. Ma resta troppo frammentato, minoritario e culturalmente anti-elettorale per essere nel 2012, per il partito democratico, quello che è stato il Tea Party del 2010 per il GOP. In effetti, parecchi suoi esponenti usano la retorica radical della sostanziale identità dei due principali partiti: un unico partito “con due ali destre”, per citare Gore Vidal o il poeta Lawrence Ferlinghetti. Invadono il web con caricature di “George W. Obama” e “Barack O’Romney”. Propongono ragioni progressiste per non votare Obama.
Post Scriptum: E proprio ai sostenitori delusi (e impigriti) si rivolge uno degli ultimi spot della campagna di Obama: dopo i primi fatidici “cento giorni” di una amministrazione Romney, ne vedranno le conseguenze e, solo allora, si pentiranno e “wish they had done more”.
Categorie:Barack Obama, Elezioni, presidenza
Tag:Franklin D. Roosevelt, Gore Vidal, Lawrence Ferlinghetti, liberal, Lyndon Johnson, Occupy, Tea Party, Theodore Roosevelt, Woodrow Wilson
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L’ottima sintesi di Arnaldo Testi: perché i liberal sono delusi da Obama (o perché non hanno saputo trasformare la presidenza Obama in una presidenza liberal).
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