Short Cuts America: il blog di Arnaldo Testi

Politica e storia degli Stati Uniti

Le controversie sui monumenti negli Stati Uniti, ieri come oggi 

Sons Of Liberty Pullig Down The Statue Of King George III,
Bowling Green, New York, 9 July 1776 (American Line Engraving, 1829)

Appunti preparati per il panel “Nocumenti. La contestazione dei monumenti all’inizio del XXI secolo”, con Mirco Carrattieri coordinatore (Liberation Route Italia), Serge Noiret (Istituto Universitario Europeo, Aiph) e Elena Pirazzoli (E-Review. Rivista degli istituti storici dell’Emilia Romagna in rete). Mercoledì 12 giugno 2024, Anvedi che storia! Conferenza Nazionale di Public History, AIPH – Associazione Italiana  di Public History (Università Roma Tre, 10-14 giugno 2024).

Lavorando sulle controversie sui monumenti americani, controversie di ieri e di oggi, credo di avere imparato alcune cose in negativo, cioè cose che le critiche, le contestazioni, anche quelle di strada, anche quelle (poche) violente, non sono. Ho pensato di raccontarle qui in modo stringato, e quindi schematico, e quindi anche troppo chiaro… Con una rapida conclusione.  

1. Contestare i monumenti non è anti-patriottico

Primo punto. Contestare i monumenti non è necessariamente anti-patriottico, può essere una sacra imitazione dell’atto che sta all’origine simbolica degli Stati Uniti. E cioè l’abbattimento della statua equestre del re britannico George III – da parte di una folla di cittadini e soldati rivoluzionari il 9 luglio 1776, cinque giorni dopo la pubblicazione della Dichiarazione di indipendenza. 

L’evento è molto noto, anche se di rado si riflette sul suo significato in rapporto alla storia dei monumenti. E’ un atto fondativo, indipendenza contro impero, repubblica contro monarchia. E come tale è ricordato e celebrato ogni anno, ogni Quattro di luglio, Independence Day. Mark Twain ne sottolinea in modo ironico l’evocazione di routine nelle orazioni di quel giorno: quando viene “scagliato addosso alle ossa di un monarca fossile, … morto tutti questi anni, e … gli sarà scagliato addosso annualmente finché questa repubblica vivrà”. In effetti, nel corso della storia, l’evento ritorna anche in quadri e stampe, in pageants e re-enactments, ha una sua storia sociale. E talvolta è associato agli eventi di strada di questi ultimi anni.

E’ possibile che attaccare monumenti sia un atto nello spirito rivoluzionario delle origini della repubblica? La risposta a questa domanda dipende da chi parla e di quale monumento si stia parlando. L’allora presidente Donald Trump in due diverse Fourth of July orations ha dato due risposte. Il 4 luglio 2019 a Washington, davanti al Lincoln Memorial, dice: i newyorkesi che allora distrussero il monumento sono patrioti, i nostri eroi. Un anno dopo, nel mezzo della lunga estate delle proteste del 2020, il 4 luglio 2020, in South Dakota davanti a Mount Rushmore, dice: chi danneggia i monumenti deve beccarsi 10 anni di galera, trattasi di “far-left fascism”.

2. Contestare i monumenti non è anacronistico

Secondo punto. Contestare i monumenti non è necessariamente anacronistico. E’ una faccenda delicata, sollevata spesso. E’ possibile che un monumento appaia imbarazzante, per esempio paternalista e razzista, alla sensibilità nostra ma non a quella dei nostri bisnonni? Valutare e criticare il passato con i criteri del presente è facile, è sleale, è una forma di violenza sulla storia, di violenza dei viventi sugli antenati (cosa penseranno i nostri discendenti di noi?). “Il passato è un paese straniero, là fanno le cose in maniera diversa”. Queste sono considerazioni fondate che vanno al cuore del nostro mestiere di storici. Che tuttavia, proprio da storici, è bene verificare empiricamente caso per caso. 

E l’analisi empirica dice che, in molti casi, le cose non stanno affatto così. Molte statue contestate oggi sono state criticate nel passato, fin dal loro concepimento, con criteri di allora da persone di allora, con parole simili a quelle dei contestatori di oggi. Per dire: questo monumento a Abraham Lincoln, che certi manifestanti di oggi vorrebbero rimuovere, fu criticato come paternalista e razzista da uno degli oratori ufficiali alla cerimonia ufficiale di inaugurazione nel 1876: Un ex schiavo raffigurato in ginocchio? “Ciò che voglio vedere prima di morire è un monumento che rappresenti il nero, non piegato sulle ginocchia come un animale a quattro zampe, ma eretto in piedi come un uomo”.

Altro caso: Questo Cristoforo Colombo del 1844, in piedi e armato, con accanto una donna nativa (l’America) in ginocchio – un gruppo scultoreo la cui postura suggerisce un rapporto gerarchico simile a quello del gruppo di Lincoln – fu rimosso nel 1958 (non l’anno scorso) dalle autorità del Congresso degli Stati Uniti (non da vandali si strada) dopo mezzo secolo di proteste dei movimenti Native American. E ancora: I monumenti dei generali sudisti, questo del generale Robert E. Lee del 1890, furono contestati da subito dai civil rights movements, anche nel Sud, anche in Virginia – finché poterono farlo. Poi, dopo il 1900, furono messi a tacere dai regimi segregazionisti, regimi di polizia.

E così via… Dunque critiche, contestazioni da sempre? Oggi con qualche maggiore successo o impatto o risonanza? Perché oggi, qualcosa è cambiato?

3. Contestare i monumenti non è cancel culture

Terzo punto. Contestare i monumenti non è cancel culture. Chi critica i monumenti (i critici culturali, i manifestanti), anche chi vuole brutalizzali o rimuoverli, non intende cancellare nulla della storia. Vuole piuttosto, e lo dice, discutere la versione della storia che quei monumenti promuovono, versione ritenuta parziale, per raccontarne un’altra, ritenuta trascurata. La formula sintetica è nella dichiarazione del 2015 di alcune attiviste queer, a proposito di un’azione militante intorno al Gay Liberation Monument al Greenwich Village: “Quello che abbiamo fatto è una rettifica, non vandalismo”.

I monumenti, dicono costoro, sono atti politici di memoria selettiva, atti di chi in quel luogo, in quel momento, abbia le risorse di potere per mettere in piazza ciò che sembra opportuno ricordare, quello e non altro. E su questo gli storici non possono che concordare. Ogni indagine empirica lo suggerisce. I monumenti non sono innocenti e neutrali, nascono e viaggiano con un bagaglio, rivelano e nascondono, mostrano e cancellano. Insomma sono statements of power. Naturalmente il potere che decide non è mai compatto e onnipotente, tanto meno in regimi liberal democratici, pluralisti e conflittuali come, con tutte le fatiche del caso, gli Stati Uniti. Quindi le risorse di potere utili sono di tanti tipi. Diceva un party boss di Boston del Novecento: chi strilla di più, e ha i voti, ottiene il monumento. Che è una definizione plebea ma teoricamente accurata di una democrazia conflittuale. 

Oggi si può aggiungere: chi strilla di più, e ha i voti, ottiene la rimozione del monumento. Anche la rimozione è uno statement of power, di contro-potere che magari diventa un nuovo potere che prima non c’era, o era debole e nascosto e ora è visibile e influente. Perché nell’ultimo mezzo secolo è cambiato il regime politico-sociale nel paese. E’ cambiata la politica (rivoluzione dei diritti civili, delle donne), è cambiata la demografia (nuovi cittadini immigrati, di colore). I monumenti hanno problemi con i regime changes: quelli netti (c’è la rivoluzione, giù George III), e quelli spalmati sul lungo periodo, come oggi. 

Ecco cosa è cambiato negli Stati Uniti, ecco perché oggi è diverso da ieri, perché accadono con maggiore frequenza, e qualche successo, i movimenti iconoclasti.

4. Contestare i monumenti non è iconoclastia 

Quarto e ultimo punto. Contestare i monumenti non è propriamente iconoclastia. Un movimento iconoclasta rompe le icone in quanto tali, è contrario a tutte le immagini, teme che possano diventare oggetto di venerazione, idolatria, culto della personalità. Ci sono segni di questi sentimenti alle origini della repubblica, nutriti di repubblicanesimo radicale e di radicalismo protestante. Affermazioni tipo (1831): “la democrazia non ha monumenti. Non conia medaglie, non porta la testa di un uomo sulle monete, la sua stessa essenza è iconoclasta”. Ma non è questo il caso dei movimenti degli ultimi anni, che sono iconoclasti solo in senso generico e impreciso, ce l’hanno su con certe icone, viste come ostili o insultanti, ma sono ben disposti a sostituirle con altre, percepite come amichevoli e giuste. 

E infatti le conseguenze sono di due tipi. La prima è che nuovi monumenti sono eretti di continuo, un profluvio di monumenti, dedicati a persone, cause, eventi prodigiosi che rispecchiano altre prospettive sul mondo e sulla storia. La classifica delle 50 personalità più monumentalizzate d’America, ma persino la classifica delle Top 10 dice che il pantheon delle glorie nazionali, in questi anni tribolati, non si è impoverito, tutt’altro: si è ampliato, arricchito, ha guadagnato complessità storica. Comprende ancora i soliti noti, tipo Colombo e Lee, ma anche new entry come Martin Luther King Jr.

La seconda conseguenza è forse più interessante. Una volta passata l’onda d’urto delle proteste di piazza, si è avviata una conversazione – non contro i monumenti ma piuttosto su come reimmaginarne forme e funzioni.E anche qui ho una citazione dalle attività queer intorno al Gay Liberation Monument del Village, questa volta del 2021: “In un tempo in cui abbattiamo statue, penso che sia altrettanto importante considerare collettivamente che cosa mettiamo negli spazi pubblici, qual è il processo usato per erigere statue, come re-immaginare la funzione dei monumenti”.

5. Re-immaginare i monumenti?

Sul lavoro di re-immaginazione dei monumenti non ho (ancora) fatto una ricerca sistematica. Ho solo suggestioni sparse. E comunque il mio tempo è finito… Sottolineo solo, in conclusione, quanto sia difficileimmaginare nuovi monumenti che trattino i problemi del passato, i conflitti, le lacerazioni civili del passato, e che non siano troppo di ostacolo alla convivenza contemporanea, che non rinnovino le ferite fra i cittadini realmente esistenti oggi. In questa operazione teorica sul New York Times del 2018, l’artista concettuale Dread Scott mette il dito nella piaga, con cattive intenzioni. Bisogna, dice, abbattere il monumento ma anche la colonna su cui è installato, e lasciarla lì dov’è caduta, la colonna in pezzi, a impedire il traffico, a infastidire i cittadini, a evocare i fastidi del passato ancora con noi. 

E’ possibile evitarlo? Difficile se la logica è, un po’ inevitabilmente, questa. Ecco cosa dice Mike Forcia (attivista dell’American Indian Movement) agli italo-americani di fronte a un monumento a Colombo: “Voi non eravate là. Non l’avete fatto voi. Neanch’io ero là. Non è capitato a me…Non sentitevi in colpa… Ma ciò che dovete capire è che voi state ancora godendo i benefici derivanti da quelle atrocità. Io e la mia famiglia e il mio popolo stiamo ancora soffrendo di quelle atrocità. E’ su questo che dobbiamo confrontarci”. Appunto, sentitevi in colpa! Un bel problema, per la convivenza civile.  

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