Ma è davvero il caso di mettersi a litigare, proprio quando il partito ha riconquistato la Casa bianca e controlla per un soffio entrambe le camere del Congresso (il Senato per un niente)? Proprio dopo quattro anni di esilio nella giungla? O tempora, o mores! – i soliti guastafeste. Una volta che i democratici si sono messi al lavoro, nel duro lavoro di fare delle leggi che incontrino il favore di maggioranze parlamentari, le divisioni interne hanno riacquistato visibilità e operatività politica. Quelle che sembrano prevalere sono quelle sulle ali, su questioni serissime. Da una parte ci sono i deputati e senatori più radicali, sulla sinistra, tipo Ocasio Cortez alla Camera e Sanders al Senato. Dall’altra ci sono i più conservatori, verso il centro, tipo i senatori Joe Manchin (West Virginia) e Kyrsten Sinema (Arizona): che sono solo due ma nell’aula spaccata a metà sono decisivi.
Ne discutono bene Mattia Diletti e Martino Mazzonis nell’ultima newsletter di Atlante USA 2020 (quella del 3 marzo, qui) e anche in newsletter precedenti. Vi ho accennato anch’io in questo blog, specificando la mia convinzione che i deputati e i senatori Dem conservatori non siano guastatori infiltrati del nemico, ma piuttosto rappresentino, anzi sotto-rappresentino, la parte moderata-conservatrice degli elettori del partito. Una parte che è consistente, in verità la più ampia, il 52%, secondo i sondaggi Pew dell’anno scorso; con i liberal al 32% e i very liberal al 15%, per un totale che non arriva alla metà. Un recente sondaggio Gallup (qui) racconta le cose da un altro punto di vista, ma conferma il mix di tendenze: arrotondando solo un poco, un terzo degli elettori Dem vorrebbe che il partito diventasse più liberal, un terzo lo vorrebbe più moderato, un terzo è contento così.
La mia conclusione era (ed è) che il partito-al-governo e cioè l’amministrazione Biden-Harris sembra essere più a sinistra del suo elettorato, e sul medio periodo, fra le tante cose, deve tener conto anche di questo. Diletti e Mazzonis evocano l’opinione, che condivido, del giornalista del Washington Post, E.J. Dionne: i democratici litigano perché sono un big-tent party, sono tanti e hanno una base diversa, eterogenea. I grandi partiti sono fatti così, quando sono grandi. (Il GOP è invece fatto diversamente, è diventato una compatta falange trumpiana? Riparliamone quando si sarà depositato il polverone: è tipico della miopia faziosa piangere sulla litigiosità della propria parte e ignorare quella della parte avversa. Per dire, i trumpiani vedono il loro GOP infestato di traditori da espellere e i Dems come una compatta falange marxista.)
In effetti il partito democratico, nell’arco della sua lunga storia, è sempre stato diviso al suo interno (così come il partito repubblicano, intendiamoci). C’è poco da inveire contro i tempi moderni. Il punto è come è riuscito a governare le divisioni, nel bene e nel male, nei successi e nei fallimenti.
Lasciamo stare la Guerra civile, quando il partito si scisse in due, uno di opposizione al Nord e uno di governo nella Confederazione sudista. Ma in tutto il mezzo secolo successivo? Le poche volte che vinse la presidenza, magari grazie alle scissioni altrui (come con Wilson nel 1912), ciò accadde perché riuscì a sommare i voti dei razzisti bianchi xenofobi meridionali con quelli delle masse dei nuovi immigrati delle città settentrionali: vasto programma, improbabile impresa. Il regime del New Deal si fondò sulla stabilizzazione di questa diabolica alleanza, che ora al Nord includeva anche i migranti afro-americani in fuga dai democratici conservatori e segregazionisti del Sud (ed è la ragione dei limiti delle politiche sociali del New Deal, ma anche della loro esistenza). Non mi dilungo, infine, sugli anni Sessanta-Settanta in cui l’alleanza andò in pezzi e mutarono le linee di frattura interne: ora c’era da ricomporre la convivenza non più con i bianchi meridionali (che cambiarono partito) ma con i nuovi acquisti progressisti alla George McGovern. Nel frattempo il partito era diventato partito di minoranza.
A pensarci bene, è possibile che nell’arco della sua lunga storia, nel bene e nel male, il partito democratico non sia mai stato così unito come oggi. Relativamente unito, nei limiti delle umane possibilità e della molteplicità di interessi di cui è fatta la vita.
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