Short Cuts America: il blog di Arnaldo Testi

Politica e storia degli Stati Uniti

Jazz band (piccola storia personale in black & white)

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Joyce Marie fu l‘ultima che conobbi del gruppo. Suonò alla porta, scesi ad aprire e rimasi incantato, ancora oggi lo sono quando ci penso. La pelle nera luminosa, il leggero abito azzurro, il sorriso abbagliante – e la voce, la voce, basti dire che era la voce della minuscola jazz band di cui avrei giocato anch’io a fare il groupie. Joyce Marie era il sogno africano di noi maschi di pelle chiara.

Ero entrato in questa storia grazie alla mia ex fidanzata Melanie che ora stava con Spike, il contrabbassista, un ghetto kid segaligno, magro e nervoso, oggi potrei dire tipo Snoopy Doggy Dogg quand’era giovane e magari affamato, ma allora chi fosse Snoopy Dogg o, se è per questo, che cosa fosse il rap, nessuno ancora lo sapeva. Melanie veniva da Oxford, Mississippi, la dolce Ole Miss, il Mississippi Goddam (“and I mean every word of it”) di Nina Simone; che frequentasse uno come Spike, che scopasse uno come Spike, che persino abitasse con uno come Spike, qui al nord, nel quartiere bohemien che Melanie chiamava “un quartiere integrato”, era bene che a casa non si sapesse. Avevo conosciuto il padre giù a Oxford, e già era seccato che la figlia si accompagnasse a un barbone dal forte accento italo-cattolico come me; figuriamoci il resto (non avevo difficoltà a immaginarlo con un cappuccio in testa). Melanie era bionda e lattea, una vera Southern belle, il sogno di noi maschi di pelle scura.

Con Spike c’era il compare Wendell che suonava la batteria, un africano enorme con mani enormi che volavano come farfalle fra piatti e tamburi, e si fermavano spesso e volentieri sul sedere della mia amica Ginnie che era anche molto amica sua. Ginnie era una pettinatrice di estrema sinistra libertaria che aveva appena mollato il marito, il mio amico Bart (che dico amico, il mio fratello di sangue e sentimenti Bart, chissà dov’è oggi), perché era diventato troppo intellettuale e stalinista. Bart era partito soldato come radiotecnico, l’avevano mandato in Germania a spiare le comunicazioni oltre cortina, aveva imparato la lingua e s’era convertito; era ritornato studioso e ammiratore della repubblica democratica tedesca. Ginnie, o Virginia come la chiamava Wendell, non aveva accettato il mistero del nuovo Bart, inoltre sì, mi confermava, le mani di Wendell erano davvero come farfalle.

Cominciai anch’io a seguirli nei loro gigs nei locali commerciali, in genere bar e clubs per middle class bianca. Joyce Marie, Spike e Wendell si guadagnavano da vivere sul palco offrendo bebop e standards con l’aiuto di un sassofonista occasionale o del pianista di casa. Melanie and Ginnie and me si stava al tavolo a far la claque e a cercare di guadagnare drinks gratuiti dal management. Che alcuni di noi fossero neri e alcuni bianchi, nessuno sembrava farci tanto caso, per indifferenza più che altro, in effetti nessuno faceva davvero caso alla musica. Noi s’era tutti molto giovani, ci sembrava di fare una gran bella cosa.

Che alcuni di noi fossero bianchi si notava senza dubbio negli afterhours, o almeno così mi sembrava le volte in cui ero presente anch’io, e dopo le prime, le volte non furono moltissime. Ci si spingeva in quartieri meno conosciuti, in ore meno perbene, in locali o appartamenti privati all-black più emozionanti, con gente più cool e musica più blue. Che Spike e Wendell portassero le girlfriends caucasiche non faceva una grinza, anzi, era motivo di interesse. Joyce Marie mi voleva bene ma non fino al punto di farmi passare per il suo boyfriend, che peraltro con mio dispiacere non ero; non voleva che si pensasse che avesse un boyfriend bianco. E così, anche quando non partecipava alle improvvisate performance e si mescolava alle chiacchiere generali, stavo lontano da lei, me ne stavo per conto mio. Mi capitava di aggirarmi con un bicchiere in mano riflettendo su che cosa volesse dire sentirsi un uomo invisibile.

Piano piano smisi di andare. O meglio, provai a coinvolgere e portare come partner la nostra amica Maggie, una soave femminista di nobile stirpe  senegalese e dai complicati nomi principeschi, che per noi democratici americani accettava di essere solo Magghì, benché Magghì suonasse low rent. Maggie era appena arrivata dalla Sorbona per fare il dottorato in letteratura comparata, ed era lesbica. (Non ricordo se le parole lesbian e comp lit avessero già allora circolazione nelle conversazioni rispettabili, ma credo di sì.) L’esperimento tuttavia fallì, fin dal primo afterhours e per motivi per me sorprendenti. Non credo di aver mai sentito tanti commenti sprezzanti, tanti insulti razzisti nei confronti dei nostri ospiti afro-americani come quelli che, tornando a casa in un’alba livida, uscirono dalla bocca dell’aristocratica intellettuale afro-parigina. E’ ovvio che non posso ripeterli qui.

Più tardi l’idillio finì anche per gli altri. Me l’hanno raccontato, ma mi fido del racconto di Melanie soprattutto, non avendo alcuna ragione di non fidarmi. Dunque pare che Spike e Melanie fossero a un concerto del celebre bassista F.H. e che poi lo andassero a riverire nel backstage e che il celebre bassista non togliesse gli occhi di dosso a Melanie e intimasse a Spike, brother di qui e brother di là, di levarsi dalle palle e che Spike, in quanto bassista assai meno celebre, anzi praticamente sconosciuto, obbedisse deferente e umiliato – e questo tolse il lume della ragione a Melanie. Spike non si fece più vedere e neanche Wendell e insomma andò tutto in vacca. E ognuno di noi si sentì più vecchio.

Questa è la storia che volevo raccontare. True story – con appena qualche nome cambiato.

Categorie:Memorie, Memory lane

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