Short Cuts America: il blog di Arnaldo Testi

Politica e storia degli Stati Uniti

Quattro modi di guardare alla bandiera americana sulla Luna

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Buzz Aldrin and the Flag, July 20, 1969 (NASA / Neil A. Armstrong / Apollo 11)

Nel cinquantesimo anniversario dello sbarco dei primi terrestri sulla Luna, la sera del 19 luglio 2019 ho raccontato alcune cose al pubblico di Luna 50, una serie di eventi organizzati dall’Università di Pisa. Partendo da questo testo, più o meno. Grazie a Antonella Galanti, a Sergio Giudici e alla Cittadella Galileiana per l’invito.

Il 20 luglio 1969 una bandiera a stelle e strisce, di nylon, piuttosto piccola (circa 90 centimetri per 150), acquistata da un catalogo commerciale, fu piantata sulla superficie lunare del Mare della Tranquillità da Neil A. Armstrong e Edwin E. “Buzz” Aldrin. I due astronauti, insieme a Michael Collins, rimasto in orbita intorno alla Luna, formavano l’equipaggio della missione statunitense Apollo 11, la prima a portare esseri umani sul satellite terrestre. Il rito della bandiera durò una decina di minuti, fu fotografato dagli stessi astronauti, trasmesso in diretta televisiva. Segnò il culmine spettacolare dell’ambizioso progetto lanciato dal presidente John F. Kennedy nel maggio 1961, e che avrebbe poi conosciuto altre sei spedizioni lunari. Dopo Apollo 17 (1972) il programma fu cancellato, ormai troppo costoso per un paese che, travagliato da crisi economiche, politiche e sociali, dovette ridimensionare le sue ambizioni, fare i conti con il senso del limite. Ma in quell’estate del 1969, il messaggio era chiaro, un messaggio di successo e orgoglio nazionale inviato a tutto il mondo che volesse guardare.

Eppure anche dietro quell’alzabandiera c’erano inquietudini e controversie. I colori della bandiera statunitense erano già stati nello spazio. Decoravano missili, navicelle spaziali, sonde lunari, tute dei cosmonauti. Edward H. White, il primo americano a fare una passeggiata nello spazio (1965), aveva dovuto comprarsele da sé, le flag patches da mettere sulla tuta, ma dopo di allora la National Aeronautics and Space Administration (NASA) le adottò nell’abbigliamento standard. Piantare una vera bandiera sul suolo lunare era tuttavia un’altra faccenda, un po’ più complessa di quanto si possa pensare. Aveva significati e implicazioni molto più forti. E suscitò inquietudini e controversie. Qui propongo alcuni quadri di riferimento, alcuni paradigmi generali che mi consentano di tentare qualche interpretazione.

Il primo paradigma interpretativo è quello, piuttosto ovvio, della Guerra fredda, del conflitto e della competizione globale (militare ed economica, ideologica, culturale, simbolica) con l’Unione Sovietica. Il progetto Apollo aveva uno scopo prevalentemente politico, e fu per questo, d’altra parte, che riuscì a convogliare su di sé le enormi risorse di cui abbisognava. Fu concepito anche come un progetto intensamente nazionale, che fin dall’inizio escluse in modo esplicito il coinvolgimento scientifico e finanziario di paesi amici e alleati, che pure qualcuno aveva suggerito. Doveva segnare la riconquista della superiorità scientifica e tecnologica degli Stati Uniti, che sembrava compromessa dopo i successi spaziali sovietici conseguiti fra il primo Sputnik (4 ottobre 1957) e il primo volo orbitale di Yuri Gagarin (12 aprile 1961).

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13 aprile 1961: The Daily Worker, Communist Party USA

Fu proprio dopo il volo di Gagarin che il presidente Kennedy annunciò l’avvio dell’avventura lunare. Annunciò anche che l’avventura sarebbe stata tutta americana, una avventura a stelle e strisce. Lo chiarì con eloquenza in vari discorsi, fra i quali quello tenuto alla Rice University, a Houston, Texas, il 12 settembre 1962. Stiamo entrando nell’età spaziale, disse Kennedy, e noi vogliamo esserne parte, anzi vogliamo guidarla. E continuò:

Perché gli occhi del mondo ora guardano allo spazio, alla Luna e ai pianeti oltre la Luna, e noi abbiamo fatto voto che non lo vedremo governato da una ostile bandiera di conquista, ma da un vessillo di libertà e di pace. Abbiamo fatto voto che non vedremo lo spazio riempito di armi di distruzioni di massa, ma di strumenti di conoscenza e comprensione. E tuttavia i voti di questa Nazione possono essere mantenuti solo se noi in questa Nazione saremo i primi, e, quindi, noi intendiamo essere i primi.

Il riferimento di Kennedy alla “bandiera ostile” non era solo metaforico. Tre anni prima, il 13 settembre 1959, la sonda sovietica Luna 2 aveva colpito la superficie della Luna (il primo oggetto terrestre ad allunare) portando con sé i simboli statuali dell’URSS. Tutti, americani e sovietici, parlarono di una bandiera. La cosa suscitò nervosismo a Washington, che si affrettò a chiarire che certo non bastava to stick a Red flag in the ground per avanzare dei diritti sulla Luna.

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Il nervosismo divenne irritazione quando, tre giorni dopo, a Washington giunse in visita ufficiale Nikita Krusciov. E Krusciov non perse la buona occasione, evidentemente preparata con cura. Con gran fanfara mediatica, portò in dono al presidente Dwight Eisenhower una replica del simbolo allunato (che in effetti con era una bandiera ma una sfera di metallo con il sigillo del paese e la falce e il martello). Durante le cerimonie di accoglienza, di fronte ad Eisenhower, circondato da giornalisti e telecamere, disse con perfida magnanimità:

Siamo venuti da voi con cuore aperto e buone intenzioni […] Non abbiamo dubbi che anche gli splendidi scienziati, ingegneri e lavoratori degli Stati Uniti d’America che sono impegnati nel campo della conquista del cosmo porteranno la loro bandiera sulla Luna. La bandiera sovietica, da vecchia residente della Luna, darà il benvenuto alla vostra ed esse vivranno lassù, insieme, in pace e amicizia così come noi dovremmo vivere insieme, in pace e amicizia, sulla terra.

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Nikita Khrushcev dona a Eisenhower una replica dei simboli sovieticiportati sulla Luna da Luna 2. Washington, D.C., 15 settembre 1959

D’altra parte, proprio alla vigilia dell’imbandierato allunaggio dell’Apollo 11, nel maggio 1969, i sovietici fecero scendere su Venere due capsule (i primi oggetti terrestri sul pianeta) ciascuna delle quali conteneva, oltre agli ovvii strumenti scientifici per lo studio dell’atmosfera venusiana, un medaglione con lo stemma dell’URSS e un bassorilievo con il ritratto di Lenin. Giocare le carte della politica simbolica nazionale, mostrare i colori, sventolare le bandiere, sembrava per tutti una necessità, o forse solo la cosa ovvia da fare.

Il secondo paradigma che aiuta a interpretare la vicenda della stelle-e-strisce sulla Luna è quello del rapporto fra esplorazioni di “nuovi” territori e affermazioni di sovranità nazionale, fra colonizzazione e bandiere nazionali. Se, come diceva la dottrina, il territorio di uno stato si estende usque ad coelum, fino al cielo, quanto è alto il cielo? Il lancio dei primi satelliti artificiali pose la questione di dove finisse il cielo inteso come spazio aereo nazionale e dove cominciasse lo spazio extra-atmosferico e quindi, presumibilmente, extra-nazionale. Se lo spazio extra-atmosferico non ricadeva sotto la sovranità di alcuno stato, era aperto alla scoperta e alla conquista di chi ne avesse la forza e la capacità. All’inizio molti esperti ritennero che sarebbe stato inevitabile applicare all’esplorazione spaziale gli stessi principi, gli stessi criteri giuridici di appropriazione territoriale e magari gli stessi rituali (piantare uno stendardo, una bandiera) che erano stati applicati all’esplorazione terrestre da parte delle potenze coloniali europee, a cominciare dalle conquiste delle Americhe. Con problemi analoghi, scrisse un analista nel 1956, “a quelli che sorsero durante la partizione dell’Africa, e ancora più analoghi a quelli che sono sorti più recentemente nell’Antartico”.

Gradualmente emerse invece la convinzione che la strada migliore fosse un’altra: definire degli standard internazionali di libero accesso per tutti, di non interferenza reciproca e non militarizzazione, in un contesto in cui i corpi celesti non sarebbero stati oggetto di appropriazione esclusiva da parte di alcuno. Le Nazioni Unite stavano lavorando da tempo in questa direzione, quando il presidente Eisenhower le incoraggiò con un discorso all’Assemblea generale, il 22 settembre 1960. Che l’URSS fosse in testa nella corsa spaziale, e nel mandare bandiere sui corpi extra-terrestri, contribuì a dettare le sue parole di saggezza.

L’Outer Space Treaty del 1967 fu il primo di una serie di accordi sull’esplorazione e l’uso pacifico dello spazio promossi dall’ONU. Esso stabiliva, all’articolo 2, che “lo spazio extra-atmosferico, inclusa la Luna e gli altri corpi celesti, non è soggetto ad appropriazione nazionale né rivendicandone la sovranitá, né occupandolo, né con ogni altro mezzo”. Portare la propria bandiera sulla Luna, dunque, non poteva più significare pretenderne la sovranità, neanche alludervi; diventava un gesto simbolico più mite. Il paradigma coloniale era bandito. Una simile pretesa, d’altra parte, non era stata avanzata neanche dall’Unione Sovietica, sulla base dell’episodio del 1959, ben prima che il trattato fosse concepito.

E tuttavia il trattato diceva anche altro. Riconosceva, all’articolo 8, che gli stati mantenevano “giurisdizione e controllo” sugli oggetti e sul personale da loro lanciati. Era questa una forma di sovranità? In quegli oggetti lontani, la bandiera nazionale aveva dunque un significato? Ma allora, si chiesero osservatori e studiosi statunitensi evocando aspetti cruciali della storia del loro paese, anche lassù la Costituzione doveva seguire la bandiera? Vi dovevano cioè valere le norme e le garanzie costituzionali valide nel territorio statale sulla Terra? E se il personale di quegli oggetti, divenuti prima o poi stabili colonie spaziali, dovesse mettere in discussione l’autorità della madrepatria? Ci sarebbero stati movimenti di indipendenza? Si trattava di questioni teoriche, direi molto teoriche (o fantascientifiche), che tuttavia chiarivano come il paradigma coloniale continuasse a lavorare sotto traccia nel linguaggio americano del tempo. Neanche tanto sotto traccia, in effetti, se si pensa alla retorica kennedyana della Nuova frontiera, in particolare alla sua idea che “lo spazio è la nuova frontiera degli Stati Uniti”: storicamente, la frontiera era stata una linea mobile di colonizzazione di territori altrui, un fronte di guerre di conquista.

Il terzo paradigma interpretativo parte da qui, riguarda la nuova sensibilità che il discorso politico americano degli anni Sessanta sviluppò a proposito di temi come il colonialismo e la bandiera nazionale. E’ facile ricordare l’impeto critico dei movimenti radical contro la guerra in Vietnam, delle piccole minoranze che bruciavano la stelle-e-strisce “imperialista” e delle minoranze più consistenti, capaci di influenzare il pubblico liberal, che ritenevano che la stelle-e-strisce fosse usata dal governo per scopi sbagliati. Movimenti che guardavano al passato, e vedevano la bandiera coprire ciò che Leslie Fiedler allora chiamò “il genocidio da cui nacque la nostra nazione”; o diventare, nelle Filippine colonizzate di inizio Novecento, nelle parole di Mark Twain recuperate e riedite nel 1968, un vessillo di banditi e pirati.

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Per alcuni americani la bandiera è fonte di emozione patriottica, scrisse il New York Times per il 4 di luglio del 1969, ma per altri è una minaccia, ad esempio per l’ex star nera del baseball Jackie Robinson: “quando vedo un’automobile con l’adesivo di una bandiera penso che il tizio al volante non mi è amico”. Ai partecipanti di questo clima di opinione, la bandiera impugnata dagli astronauti nelle fotografie della NASA evocava con troppa evidenza l’iconografia di un Cristoforo Colombo che prende possesso di terre altrui in nome di un monarca lontano; e in effetti la ricorda anche a noi, nella postura dei corpi, nella composizione dell’immagine, nel focus sul vessillo. (Evoca anche tante altre bandiere di conquista.)

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Questa evocazione non piacque. Certo sulla Luna non c’erano nativi di colore da civilizzare, con le buone o con le cattive. Ma le tensioni razziali terrene si proiettarono anche lassù. Ci furono proteste del civil rights movement contro le spese facili per lo spazio mentre molti americani facevano la fame. Il giovane poeta e musicista afro-americano Gil Scott-Heron scrisse un pezzo di successo intitolato sarcasticamente Whitey on the Moon (“I can’t pay no doctor bill / but Whitey’s on the moon”). La pittrice e performer nera Faith Ringgold disegnò una sua Bandiera per la Luna (Flag for the Moon, 1969): il dipinto raffigura una bandiera nella quale dietro le stelle si intravvede la parola die (muori), e le strisce, scure invece di bianche, sono disposte a formare la parola nigger. Die Nigger era il messaggio da lanciare oltre il cielo: crepa negro.

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Faith Ringgold, Black Light # 10: Flag for the Moon: Die Nigger (1969)

Ma non si trattava solo della rabbia di radicals neri e bianchi o dei sensi di colpa di bleeding heart liberals. E’ stato un funzionario molto ufficiale come Roger Launius (Chief Historian della NASA e poi capo della Space History Division dell’Air and Space Museum di Washington, l’uomo che avrebbe voluto “essere il primo storico nello spazio”) a ricordare come, anche in molti ambienti dell’establishment “c’era gente allora, e c’è stata gente da allora in poi, che riteneva che piantare una qualsiasi bandiera lassù fosse una pessima idea”. E a spiegare il perché: “Dopo il quindicesimo secolo mentre l’Europa si stava espandendo, gli europei piantavano bandiere dappertutto e rivendicavano il territorio per la madrepatria. Molta gente riteneva che quello stabilisse un pessimo precedente”.

D’altra parte questo precedente era ben presente anche a coloro ai quali esso piaceva, a quelli che non ci trovavano niente da ridire. “Certamente pensai che la bandiera americana era quello che ci voleva”, ricordò più tardi l’astronauta Buzz Aldrin, aggiungendo: “E’ una caratteristica delle precedenti esplorazioni, quella di piantare un simbolo quando si arriva su nuovi lidi. E quello fu in effetti un momento filosofico di conquista”. Il presidente Ronald Reagan, infine, non vide soluzioni di continuità fra la conquista della Luna e la conquista del West. In un discorso del 14 giugno 1985, Flag Day e centesimo anniversario del primo Flag Day, in quel Fort McHenry di Baltimora la cui bandiera, all’inizio dell’Ottocento, ispirò l’inno nazionale americano, Reagan recitò: “Dalle montagne del Kentucky alle spiagge della California al Mare della Tranquillità sulla Luna, i nostri pionieri hanno portato la nostra bandiera di fronte a sé, simbolo dello spirito indomito di un popolo libero”. Per il vecchio, finto cowboy hollywoodiano la frontiera, quella vera, non si era mai chiusa.

Il quarto (e ultimo) paradigma riguarda le tensioni fra nazionalismo americano, internazionalismo e universalismo americano nella retorica pubblica del paese. E questo, benché il tema sia grandioso, è anche il paradigma più fattuale e di breve periodo. All’inizio del 1969, nel suo discorso inaugurale, il presidente Richard M. Nixon cercò di dare all’impresa dell’ormai imminente allunaggio un sapore più internazionale, meno nazionale e nazionalista, di quello che gli aveva dato Kennedy. In coerenza con la sua proposta di una nuova politica mondiale di negoziato fra le potenze, ma anche, presumo, grazie a una raggiunta nuova sicurezza nella competizione spaziale con l’URSS, Nixon usò un linguaggio per molti versi opposto, più simile a quello di Krusciov del 1959 (la magnanimità dei vincitori). “Mentre esploriamo le profondità dello spazio”, disse, “andiamo nei nuovi mondi insieme – non come nuovi mondi da conquistare, ma come una nuova avventura da condividere”.

Settori importanti di opinione, anche dentro la NASA, erano d’accordo e suggerirono che gli astronauti lasciassero sulla Luna, insieme alla stelle-e-strisce, anche l’emblema della cooperazione internazionale, la bandiera delle Nazioni Unite. La Camera dei rappresentanti si ribellò, e colpì la dove faceva più male. Approvò una risoluzione “nazionalista” che sottolineò come il progetto Apollo fosse finanziato con i soldi del governo americano e dei contribuenti americani (con la Camera stessa a tenere i cordoni della borsa); impegnò quindi l’agenzia spaziale a usare “la nostra bandiera – Old Glory”, e solo quella, “come simbolo della [nostra] preminenza nello spazio a cui i cittadini di questa Nazione possano guardare con orgoglio”. Inchinandosi alle disposizioni dell’Outer Space Treaty, la risoluzione specificava che ciò “è da intendersi come un gesto simbolico di orgoglio nazionale nell’impresa e non deve essere interpretato come un dichiarazione di appropriazione nazionale tramite una rivendicazione di sovranitá”.

La NASA si destreggiò con sapienza burocratica fra le pretese contrastanti del nazionalismo e dell’internazionalismo. Nel febbraio 1969 nominò un Committee on Symbolic Activities for the First Lunar Landing, per soppesare le opzioni tecniche (che non intralciassero la missione, non creassero inutili pericoli) e quelle politiche. L’idea della bandiera dell’ONU fu considerata e poi accantonata, per il veto della Camera. Considerata e poi respinta, per lo stesso motivo, fu l’idea di un set di piccole bandiere di tutti gli stati del mondo (le quali furono comunque caricate sulla navicella e al ritorno donate ai rispettivi capi di stato, scoprendo solo allora che alcune erano obsolete, non più in uso). La bandiera nazionale sarebbe dunque rimasta sola. E tuttavia il comitato escogitò delle strategie comunicative per depotenziarne la carica nazionalista e le suggestioni coloniali.

Per fare ciò, ricadde nel vecchio paradigma dell’universalismo americano, dell’America come avanguardia, rappresentante e interprete dell’intera umanità. Lo scopo, precisò, era “caratterizzare il primo allunaggio come uno storico passo in avanti dell’intera umanità che era stato compiuto dagli Stati Uniti”. E tuttavia anche il nome del paese fu assai poco, se così posso dire, sbandierato. La targa lasciata nel Mare della tranquillità per ricordare l’evento non conteneva l’immagine della stelle-e-strisce, come previsto all’inizio, bensì i due emisferi terrestri stilizzati. E la celebre iscrizione andava sul poetico: “Qui uomini dal pianeta Terra posero per la prima volta piede sulla Luna / Luglio 1969 A.D. / Siamo venuti in pace per tutta l’umanità” (a tradire l’origine c’era, fra quelle degli astronauti, la firma di Richard Nixon, “President, United States of America”).

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Apollo 11 stainless steel dedication plaque, with signatures of Neil Armstrong, Michael Collins, Buzz Aldrin, and President Richard Nixon (NASA)

Nello stesso spirito furono preparate le parole che Armstrong avrebbe dovuto pronunciare nel momento fatale, “Questo è un piccolo passo per un uomo, ma un balzo da gigante per l’umanità”. Nello stesso spirito Aldrin disse in Congresso che le impronte lasciate sulla Luna “appartengono anche al popolo di tutto il mondo”. Buzz Aldrin, come al solito, era il più ispirato. In un articolo per il settimanale “Life”, scrisse che guardando la bandiera sentì una “una fusione quasi mistica di tutte le genti del mondo, in quel momento”.

Un’ultima considerazione. L’alzabandiera lunare comportò alcune difficoltà tecniche. Bisognò far sì che la macchina simbolica fosse leggera e resistente, occupasse poco spazio, fosse facilmente manovrabile dagli astronauti nei loro impacciati scafandri, e infine facesse bella figura in un ambiente senza atmosfera e senza vento. Per risolvere quest’ultimo problema, cruciale per la riuscita dello show, all’asta verticale della bandiera fu aggiunta un’asta orizzontale telescopica che, quando estesa, tenesse ben disteso il drappo.

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Lunar Flag Assembly prima di essere installata sul modulo lunare Eagle (NASA/Johnson Space Center)

Al momento della messa in opera, non tutto filò liscio. L’asta verticale penetrò poco nel durisssimo suolo lunare, fu ruotata più volte come si fa con un ombrellone nella sabbia, e ciò impresse alla bandiera un movimento rotatorio che, senza l’attrito dell’aria a frenarlo, durò a lungo. L’asta orizzontale telescopica non si aprì del tutto, e il tessuto della stelle-e-strisce rimase arricciato, dando l’illusione che sventolasse.

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Queste pecche dell’operazione, questa bandiera che nelle fotografie sembra garrire a una brezza che non dovrebbe esserci, sono diventate le principali prove che dimostrerebbero che l’allunaggio non è mai avvenuto, che l’evento è stato messo in scena in uno studio televisivo o cinematografico (magari diretto, e distrattamente diretto, vien da dire, dal regista Stanley Kubrick reduce dai trucchi di 2001: Odissea nello spazio). Il governo degli Stati Uniti si sarebbe inventato tutto.

I teorici delle cospirazioni, da subito e ancora oggi, hanno qui sbrigliato la fantasia per dare voce alle loro, e alle nostre, angosce – per proporre versioni grottesche della Guerra fredda. Versioni terrorizzanti, perché esaltano le infinite, segrete capacità degli stati di manipolare la percezione della realtà. Ma anche versioni tutto sommato rassicuranti, perché dicono che le due grandi potenze erano d’accordo, che era tutto un gioco, una commedia. Dicono che i sovietici sapevano benissimo che gli americani mentivano, e che tacquero perché anche le loro imprese spaziali erano fasulle. Erano solo seccati di non averci pensato loro per primi, alla menzogna più grossa e più prestigiosa di tutte, quella di mostrare la loro bandiera sulla Luna in compagnia di esseri umani in carne e ossa.

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Categorie:Americanismo, Guerra fredda

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