Leslie Fong, What Would Chinese Hegemony Look Like? A Lot Like US Leadership, “South China Morning Post”, 15 aprile 2018.
Sul “South China Morning Post” (quotidiano in lingua inglese di Hong Kong, ora di proprietà del conglomerato cinese Alibaba e considerato molto vicino al governo di Pechino) il giornalista Leslie Fong (già direttore di “The Straits Times” di Singapore) si pone una domanda assai interessante per tutti noi, e cioè quella che vedete qui sopra, nella prima parte del titolo dell’articolo: quali sarebbero le caratteristiche di una eventuale futura egemonia mondiale cinese? La risposta che offre non è proprio quella del sottotitolo, vorrebbe essere il suo contrario: l’egemonia cinese, sostiene, sarebbe una faccenda completamente diversa da quella esemplificata dall’imperialismo americano. Ma poi, alla fine dei conti, sono i titolisti ad aver ragione: le somiglianze ci sono, eccome – compresa la zuccherosa affermazione della diversità dell’egemonia cinese rispetto ai casi precedenti.
Scrive Fong: la ripetute dichiarazione del leader cinese Xi Jinping secondo cui la Cina non cerca egemonia o espansione non convince i potenti d’Occidente. Sono così abituati a pensare in termini a loro familiari che non si accorgono delle differenze neanche quando le vedono. Per i dirigenti di paesi imperialisti o ex imperialisti come gli Stati Uniti, la Gran Bretagna o il Giappone è naturale estrapolare dalla loro “storia vergognosa” di dominio per giudicare il resto del mondo. E così sono restii ad accettare l’idea di una Cina potenza in ascesa ma benigna che, come dice Xi, non ha mai praticato il colonialismo, fa appello a una tradizione culturale di pace, e rifiuta le sfere di influenza. Non è così che si comportano le grandi potenze, dicono i vecchi imperialisti sospettosi.
Ma non è vero, scrive Fong. A differenza degli Stati Uniti o del Giappone o anche della defunta Unione Sovietica la Cina non ha alcuna intenzione di imporsi con la forza ai paesi più deboli. E aggiunge: un esempio sul quale hanno portato l’attenzione alcuni analisti occidentali, e su cui conviene davvero riflettere, viene dal passato.
Guardate alla Cina imperiale delle grandi dinastie Han, Tang, Song, Ming e Qing, all’elaborato sistema di tributi che i paesi vicini pagavano loro in raffinate cerimonie, portando doni, elefanti e perle, inchinandosi all’imperatore, in cambio ricevendo doni altrettanto sontuosi e privilegi commerciali. C’era violenza in questi rapporti? Ma neanche per sogno, non si trattava certo di “diplomazia della cannoniera”. “L’uso della forza era raro”, tranquillizza Fong (ma così dicendo concede che quell’uso esisteva almeno come possibilità, come dire, statistica). Gli stati tributari accettavano volentieri il sistema non per paura di rappresaglie ma perché ne traevano vantaggio. Soprattutto, era loro assegnato un posto in un ordine geopolitico che ha garantito la pace regionale per 1500 anni.
C’è gente che sostiene che tutto ciò assomigli molto al playbook americano, a come gli americani hanno concepito e condotto il loro disegno di egemonia mondiale. E in effetti c’è del vero, ammette Fong. Anche loro si sono immaginati come una potenza benigna in ascesa, non colonialista, che porta la pace e che agisce con il consenso e per invito degli altri paesi, che non esercita egemonia ma leadership. E i paesi egemonizzati non si sono mai descritti come tributari, bensì come amici, alleati, partner, implicando eguaglianza in una gerarchia non immeditamente apparente. Ma c’è una differenza fondamentale. In effetti gli Stati Uniti ne hanno fatto di tutti i colori per fare prevalere i loro interessi. E soprattutto hanno cercato consenso alla loro egemonia anche in termini di idee e valori, hanno cercato di esportare la democrazia liberale, anche con la guerra se necessario, oppure con strumenti di coercizione economica al loro comando come il Fondo monetario internazionale.
Le dinastie imperiali cinesi, invece, anche nei momenti di massimo splendore, non hanno mai voluto imporre niente né esportare alcunché – e che ciascuno stato si regolasse come meglio credeva. Fong sembra suggerire che la Cina di oggi non è una potenza rivoluzionaria, non vuole cambiare le radici dell’ordine mondiale, non si trastulla con sciocchezze tipo democrazia e liberalismo all’interno dei vari paesi. Le cose importanti a cui mira è forse una deferenza pre-rivoluzionaria, da ancien régime? Anche in questo caso conviene guardare al grande passato del Celeste Impero. Che cosa ci guadagnava la Cina, dal complesso sistema di cui era al centro? Sembra proprio che le interessasse, più che la sottomissione politica o economica degli stati vicini, il loro riconoscimento della sua indiscussa superiorità culturale. Ma non spingeva troppo. Con benevolenza, aspettava che capissero da soli e decidessero in autonomia di copiare ciò che faceva della Cina una civiltà così gloriosa.
Che tutto ciò possa essere un programma anche per il nuovo Chinese century?
Comunque, in conclusione Fong viene al dunque, al dunque geopolitico, qui e ora, dopo tante chiacchiere (e qui traduco quasi letteralmente). C’è tutta questa discussione occidentale su che cosa fare per contrastare la Cina ora che la potenza americana è in declino? Ebbene sì, una discussione dovrebbe esserci, dice Fong, ma su questo: sul fatto se la Cina, che non ha alcuna intenzione di essere egemone, non sia comunque necessaria per bilanciare un’America assai poco benigna, governata com’è da populisti che sono sprezzanti delle regole di condotta fra le nazioni e che maltratteranno tutti nel loro tentativo di make America great again.
Insomma: usate la Cina in funzione anti-imperialista anti-americana, tanto per cominciare.
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