In un post su Facebook di qualche giorno fa, un eminente e solido sostenitore di Bernie Sanders, Robert Reich, dà alcuni consigli sul “che fare” a questo punto della corsa. Il primo è scontato e per il momento inevitabile: continuare a battersi nelle primarie, in particolare in vista di quelle molto succose, ricche di delegati, del New Jersey e della California il prossimo 7 giugno.
Il secondo consiglio è più delicato: non demonizzare Hillary Clinton e, se sarà lei la nominee del partito, votare per lei e lavorare per lei. Sarà l’unico ostacolo fra Donald Trump e la Casa bianca. Dice Reich: “sarà un eccellente presidente per il sistema che abbiamo, mentre Bernie sarebbe il miglior presidente per il sistema di cui abbiamo bisogno”. I Berniecrats più puri e duri non la mandano giù, dicono: “Hillary è un mostro”.
Infine il terzo consiglio: prepararsi al dopo. Costruire un movimento, persino un terzo partito, che cominci a organizzarsi dal basso a livello locale e statale, che guardi alle prossime elezioni di medio termine, e poi più avanti ancora. Dice Reich: “Nessun movimento per cambiare l’allocazione del potere ha successo facilmente o rapidamente. Siamo all’inizio di un lungo viaggio”. Si fa presto a dirlo: qui ci sono altri dolori, di altro tipo.
We are in this for the long haul. Questo sembra essere il problema: la prospettiva lunga, il lavoro lungo, non misurato sulla distanza di una campagna elettorale. Mezzo secolo fa, nei suoi giri fra gli studenti radicali del tempo, l’attivista Dave Dellinger soleva ripetere: siete abituati ad avere instant coffee, pretendete instant gratification, e volete instant revolution – non è così che funziona.
Chi ha davvero voglia di imbarcarsi in una impresa di queste dimensioni e di questo respiro? Chi ha davvero voglia di gratificazioni differite?
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