Pubblicato il 3 novembre 2014 sul sito web di pagina99.
Per raccontare le elezioni americane si possono scegliere frasi altisonanti e poetiche, ad esempio si possono riprendere i versi celebrativi dell’esercizio democratico di Walt Whitman e della sua Election Day del 1884, in cui si canta dell’“America’s choosing day”: “il giorno in cui l’America fa la sua scelta/Il senso profondo non nell’eletto – l’atto in se stesso ciò che più conta, la scelta…”
Oppure per raccontare la politica americana e la sua storia si possono scegliere citazioni ciniche, figlie di una democrazia vecchia di 200 anni, di origine un po’ plebea e che ne ha viste di tutti i colori. Se a parlare sono i professionisti della politica, i più scaltri o i più brillanti, ne emerge un quadro colorito. Adatto a una vigilia elettorale come quella del midterm.
Fu il senatore Macy, l’inventore della frase “al vincitore appartengono le spoglie del nemico” a metterla giù chiara. A dire all’inizio dell’Ottocento: “I politici degli Stati Uniti non sono così schizzinosi come alcuni gentlemen nello svelare i principi in base a cui agiscono. Essi predicano quello che fanno. Quando si battono per la vittoria, dichiarano apertamente l’intenzione di goderne i frutti”. Cioè l’intenzione di sistemare gli amici nella pubblica amministrazione – il clientelismo insomma – o, appunto, lo spoil system.
Alcune frasi epocali, come quella di Macy, hanno una fonte chiara e riscontrabile nei documenti. Altre sono solo attribuite senza alcuna prova storica, talvolta a una molteplicità di soggetti diversi. Appartengono alla cultura orale, al folklore politico e giornalistico. Hanno gran circolazione e sono celebri.
“Il popolo ha parlato – il bastardo”. E’ il grido di dolore dello sconfitto, ironico e rassegnato: saranno bastardi, gli elettori, ma sono il popolo sovrano. Sappiamo chi l’ha inventato, un tipo degli anni 1960s di nome Dick Tuck, candidato al senato statale della California. Non gli andò bene. Aspettò fino all’ultimo. Aspettò, disse, che arrivassero anche i voti dei morti (solo perché erano morti non voleva dire che non avessero diritto di voto). E poi fece il suo discorso di concessione: “The people have spoken, the bastards”. Niente sincere congratulazioni di prammatica all’avversario vincitore. E quando non si capisce chi sia il vincitore? Come commentò Bill Clinton il giorno dopo le pasticciate elezioni presidenziali del 2000, “Il popolo ha parlato, ma ci vorrà un po’ per sapere che cosa ha detto”.
“Signora, abbiamo bisogno di una maggioranza”. La conversazione sarebbe andata così, e il condizionale è d’obbligo perché non abbiamo fonti certe. Una elettrice entusiasta dice a Adlai Stevenson, candidato democratico alla presidenza nel 1952 e nel 1956: “Lei avrà il voto di ogni persona pensante”. La sua risposta: “Non basta, cara signora, we need a majority”. Disprezzo della maggioranza di un politico-intellettuale elegante e un po’ snob come Stevenson? Una sua considerazione, questa sì certa e documentata, suggerisce qualche riflessione: “la cosa più difficile in ogni campagna elettorale è come riuscire a vincere senza dimostrare di essere indegni di vincere”. Stevenson, da parte sua, almeno a livello presidenziale, perse entrambe le volte che ci provò, e forse per questo è ricordato come uomo dignitoso.
“Mai scrivere se puoi parlare, mai parlare se basta un cenno del capo, mai fare un cenno del capo se basta uno sguardo”. Era il motto dei vecchi boss di partito, ed è il motto di coloro che manovrano dietro le quinte, che non vogliono lasciare traccia delle loro manovre. Gli operatori fattivi e silenziosi in campagne elettorali inevitabilmente piene di (vuote?) chiacchiere. Naturalmente non hanno lasciato traccia o prova neanche di aver detto questo. Per cui le attribuzioni abbondano, e risalgono tutte a circa il 1900, agli uomini delle party machines delle grandi città dell’Est. Di uno di loro si diceva che non apriva bocca neanche per cantare l’inno nazionale, “forse perché non voleva compromettersi”. Di un altro, che credeva che fosse meglio che “a parlare siano i soldi”.
“Ci sono due cose importanti in politica. La prima è il denaro, non ricordo la seconda”. A proposito di soldi, questo è Marcus Hanna: magnate del carbone e campaign manager del repubblicano William McKinley, eletto presidente nel 1896. Raccolse così tanti finanziamenti da industriali e banchieri che potè organizzare una operazione in grande stile, con uno staff di centinaia di persone e un uso massiccio e sofisticato dei mass media. Diede persino voce al taciturno McKinley, che odiava comiziare a braccio (“Devo pensare quando parlo”), facendogli scrivere i discorsi da speechwriters di professione. Fu quella la prima campagna elettorale “moderna”. Il fantasma del suo inventore si aggira oggi più che mai nei corridoi di Washington. Sta ancora cercando di ricordare quale sia la seconda cosa importante in politica.
“Preferisco essere nel giusto piuttosto che essere presidente”. Così disse Henry Clay, senatore Whig del Kentucky, nel 1838. “I’d rather be right than be president”. Infatti non fu mai presidente.
“Non conta chi vota, ma chi conta i voti”. Questa, in effetti, per quanto sia popolare in America, viene attribuita a Giuseppe Stalin.
Categorie:campagna elettorale, Elezioni
Tag:Adlai Stevenson, campagna elettorale, Dick Tuck, Marcus Hanna, midterm 2014, party boss, spoil system