
L’altra sera al Cinema Arsenale di Pisa ho presentato Django Unchained (2012, release italiano 2013). Il film, in versione originale, è parte di una piccola serie che celebra i 60 anni del regista Quentin Tarantino. Le cose che ho detto, messe un po’ meglio per iscritto, sono grosso modo queste.
Se avete fatto caso al poster italiano di Django Unchained, avrete notato un claim che dice, “Gli hanno tolto la libertà. Lui gli toglierà ogni cosa”. Il claim sul poster americano è tutt’altro, evoca la Dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti, dice “Life, liberty, and the pursuit of vengeance”, cioè la vita, la libertà e il perseguimento… non della felicità ma della vendetta. La volgarità e l’incertezza linguistica del claim italiano suggeriscono che qualcosa è andato storto, qualcosa è stato lost in translation. Mentre è facile sospettare che, per Tarantino, vendetta e felicità siano la stessa cosa.
Questa è una storia tarantiniana di vendetta americana. E’ una storia di violenza, una violenza di almeno due tipi. C’è la violenza del sistema schiavista contro gli schiavi, che è realistica e terrificante sia quando è esplicita che quando è solo accennata. E c’è la violenzavendicativa di Django, di Jamie Foxx, dell’eroe nero, contro i bianchi che a me pare, soprattutto nell’esplosione finale, abbastanza cartoonish, fasulla, secchiate di sugo di pomodoro, forse anche per questo tranquillamente liberatoria. E’ una storia politica? Credo proprio di sì. Il film esce nell’inverno 2012-2013 agli inizi di un decennio di agitazioni razziali come non se ne vedevano dagli anni Sessanta, e Quentin è sul pezzo, che lo voglia o no, e francamente non ne so niente, delle sue intenzioni.
E’ una storia di fantasia? E’ fiction, com’è ovvio, e ci sono scene anacronistiche, come spesso succede in Tarantino. Una di queste (per fare un po’ di spoiling, ma di altre non parlo) riguarda un attacco di cavalieri bianchi razzisti, incappucciati alla maniera del Ku Klux Klan. La nostra storia si svolge nel 1858, quindi prima della Guerra civile, in pieno regime schiavista, mentre il KKK nacque dopo la guerra, per “rimettere al loro posto” con il terrore gli ex schiavi ora liberi, troppo liberi. Ma qui Tarantino si misura corpo-a-corpo non con la storia dell’Ottocento ma con la storia del cinema. La cavalcata degli incappucciati è una parodia del celebre “arrivano i nostri” in Nascita di una nazione di D.W. Griffith, una scena che in Griffith è ignobilmente eroica e che qui diventa comica e ignobilmente disastrosa. Ha detto Tarantino: “it was my ‘fuck you’ to D.W. Griffith”.
Le accuratezze ben ricercate sono molte, le piantagioni schiaviste e i loro infami costumi, certi episodi e accadimenti, un certo spirito della storia. La figura del servo-maggiordomo Stephen Warren, interpretata da Samuel L. Jackson, è ricalcata su quella di una pubblicità della Capanna dello Zio Tom, il romanzo di Harriet Beecher Stowe del 1852. Certe battute che sembrano tarantiniane sono ben radicate nel tempo. Quando a Django viene proposto di diventare un cacciatore di taglie, se ne ha voglia, Django risponde: “Kill white folks and they pay you for it? What’s not to like?” Roba da spaghetti western, e tuttavia questo era anche un sentimento diffuso fra i 200.000 neri, per metà ex schiavi, che qualche anno dopo combatterono nell’esercito unionista contro i loro ex padroni confederati. Sparare ai bianchi, e avere pure la paga del soldato! Molte memorie di schiavi fuggitivi registrano inoltre questo fatto: la liberazione comincia nella loro testa nel momento in cui colpiscono, picchiano o uccidono il loro “padrone” bianco.
I critici afroamericani di Tarantino (ricordate la prima reazione di Spike Lee? “Il film non l’ho visto e non mi piace”) – ecco, malgrado Spike Lee, i critici afroamericani segnano un punto a loro favore quando dicono: sarà anche un film su un eroe nero, ma, porca miseria, c’è sempre bisogno di un white savior per mettere in moto la storia? Ci vuole sempre il gran “salvatore bianco”, in questo caso il Dr. King Schultz, che faccia delle cose all’inizio del film? Insomma, i bianchi proprio non ce la possono fare, non riescono a non attribuirsi il ruolo di protagonisti. Abbastanza giusto, anche se chiederei alla giuria di considerare alcune attenuanti a favore dell’imputato.
Il Dr. King Schultz, cioè Christoph Waltz, è germanico, non americano, in effetti credo che sia l’unico bianco decente in tutto il film, nessun americano bianco ci fa una bella figura. E’ germanico e quindi innocente dei crimini americani, lo dice più o meno Django: “Naw, he just ain’t use to seein’ a man ripped apart by dogs, is all… him bein’ German an’ all, I’m a little more use to American’s then he is”. Ed è germanico non a caso. Erano infatti tali molti leader del movimento abolizionista di quegli anni, fortyeighters, cioè quarantottini liberali e radicali emigrati negli Stati Uniti dopo il fallimento dei moti del 1848-49 negli stati tedeschi. Il più famoso di loro diventò ministro di Lincoln e si chiamava Carl Schurz, quasi lo stesso cognome del nostro dottore.
Aggiungerei un’altra cosa. In una scena iniziale il Dr. Schultz dice a un gruppo di schiavi non più in catene: date retta a me, se decidete di andarvene di qui, “the North Star is that one”: quella è la stella polare. E la stella polare indica il nord, gli stati del Nord, la destinazione della Underground Railroad, il Canada, la libertà. The North Star era anche il nome del giornale abolizionista diretto da un ex schiavo di nome Frederick Douglass. Qui la trama si infittisce perché Douglass pubblicò nel 1852, lo stesso anno della Capanna dello Zio Tom, il racconto The Heroic Slave che ha un plot centrale simile a quello di questo film, e che è verosimile abbia ispirato Tarantino. Anche lì c’è un deus ex-machina iniziale bianco e poi appunto uno schiavo nero eroico, il tutto raccontato dal più grande leader afroamericano dell’Ottocento, uno che, da ex schiavo, sapeva ciò di cui stesse parlando.
Infine – lo vedrete. Certo, è il Dr. Schultz che mette in moto la macchina di liberazione, ma poi la macchina procede da sola, e Django diventa padrone delle sue azioni e del suo destino. Con qualcosa di più. Guardate bene gli ultimi istanti del film, appena prima dei titoli di coda, mentre tutto si è compiuto, e Django si allontana a cavallo accompagnato da una donna a cavallo anche lei. Bene, nei secondi finali, potete vedere l’eroina a cavallo che estrae il fucile dalla custodia nella sella e lo brandisce. Non ce n’è bisogno lì per lì, la battaglia è finita, ma la guerra no. E anche la donna, Broomhilda detta “Hildi”, Kerry Washington, annuncia che dopo essere stata liberata da altri sta diventando liberatrice di se stessa. La macchina di liberazione, comunque messa in moto, continua a fare il suo lavoro.
Per chiudere. Nel corso del film sentirete cento e più volte la parola più insultante e razzista che ci sia nella lingua americana, quella che comincia con N, usata sia dai neri fra loro che dai bianchi verso i neri. La N-word è un tabù linguistico fortissimo, anch’io ho difficoltà a pronunciarla. Si racconta che anche Leo Di Caprio, nella parte dell’efferato schiavista Calvin Candie, ce l’avesse questa difficoltà, sul set di Tarantino.


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