Short Cuts America: il blog di Arnaldo Testi

Politica e storia degli Stati Uniti

Soldati italoamericani nella Seconda guerra mondiale

L’altro giorno abbiamo presentato questo bel libro alla Domus Mazziniana di Pisa – grazie all’iniziativa di Arturo Marzano, con Giulia Crisanti e con gli autori Francesco Fusi e Matteo Pretelli. Queste sono tre cose, un po’ rielaborate, che traggo da quelle ho detto lì, un po’ più erratiche.

Matteo Pretelli e Francesco Fusi, Soldati e patrie. I combattenti alleati di origine italiana nella Seconda guerra mondiale (Il Mulino, 2022).

Dove si scopre, o almeno io ho scoperto, una cosa a cui non avevo mai pensato, e cioè che una gran massa di emigranti italiani (una maggioranza, forse? dalla mappa qui sopra sembrerebbe di sì, ma non ho fatto i conti) nell’età delle grandi migrazioni fra fine Ottocento e la prima parte del Novecento sia finita in paesi che a un certo punto della loro storia si sono ritrovati a far la guerra all’Italia stessa. Per cui gli emigranti italiani o i loro figli hanno loro stessi preso le armi contro la old country (e se questo è vero, c’è qualche segno del destino?). Sono finiti, questi emigranti, nei paesi che hanno costituito il cuore “occidentale” dell’alleanza anti-nazista, anti-fascista, anti-militarista giapponese, in paesi di lingua inglese come Stati Uniti e Canada e Australia e lo stesso Regno Unito, in Francia e nelle sue dipendenze coloniali, in paesi dell’America Latina che si sono uniti alla causa, il Brasile un po’ di più, l’Argentina solo alla fine, riluttantissima. Le ricerche di Pretelli e Fusi prendono in considerazione i combattenti di discendenza italiana di tutti questi paesi, anche se lo spazio maggiore in termini di pagine, di interesse, di profondità d analisi, di ritmo portante della narrazione, riguarda gli italoamericani, cioè gli italiani negli Stati Uniti…  Che è anche, come si può immaginare, la faccenda sulla quale mi sento più autorizzato a dire la mia.

Dove si scopre, o almeno io ho scoperto, che c’è stato un forte contributo americano alla diffusione, al rafforzamento, se non alla creazione del mito degli italiani brava gente, del “bravo italiano” contrapposto al “cattivo tedesco” o al “cattivo giapponese”. Sono note le origini italiane di questo mito, dal periodo primo-coloniale di fine Ottocento fino appunto alla Seconda guerra mondiale, un mito che mette in contrasto gli italiani “popolo buono” con i governi cattivi, con i fascisti feroci, e che finisce per liberarli dalla responsabilità da quello che viene fatto in loro nome ma, si suppone, non con il loro consenso, e comunque mica da loro personalmente. Un mito che è servito a fondare la repubblica democratica in nome di un popolo narrato come antifascista che si autoassolve dalla guerra, dai crimini di guerra, dalle atrocità in guerra. Qui si chiarisce che, almeno dopo lo sbarco in Sicilia, furono gli stessi americani a dare una mano in questa direzione. Lo fece il governo che voleva usare l’immagine di un popolo italiano “non nemico”, non ostile agli alleati un po’ perché imbelle e un po’ perché ostile ai tedeschi e ai fascisti, per favorire e accelerare la caduta del regime fascista. Lo fecero molti italoamericani, impiegati nel costruire reti di amicizia e simpatia fra occupante e occupato, anzi fra liberatore e liberato (con tutte le ambiguità di questo rapporto). Lo fecero gli emigré italiani antifascisti che miravano, appunto, a una ricostruzione democratica postbellica benevola, non troppo appesantita dalle punizioni dei vincitori. Insomma, l’Italia come “nemico dimenticato”, come ha scritto lo storico americano Thomas Guglielmo, per una serie di convergenze di interessi, di sentimenti, di mitologie politiche.

Dove si scopre, o comunque si aggiunge materiale a ciò che già si fa, che la dimensione multietnica della società americana e dell’esercito americano poteva essere considerata un elemento di forza dell’egemonia statunitense, in guerra e dopo. C’è un passaggio esemplare dal romanzo di John Hersey, Una campana per Adano (1946), un romanzo fondato su eventi e persone reali che ritorna spesso in questo libro, che dice così:

Ecco in che cosa siamo fortunati. Nessun altro Paese ha tanti uomini che parlano le lingue dei Paesi che dobbiamo invadere, che ne capiscono le usanze e che hanno sentito i loro genitori cantare le canzoni popolari e che hanno gustato il vino di quella terra sul palato della memoria. Questa è una fortuna per l’America. Siano fortunati ad avere [gente così…]. Finché non vi sarà una certa stabilità in Europa, le nostre armate e le nostre truppe dovranno restare in Europa. Ogni americano che si ferma dovrà forse contare molto su [gente così], non soltanto per la lingua, ma anche per quello che riguarda la saggezza e la giustizia e le altre cose che crediamo di offrire agli europei. 

Qui, lo suggeriscono anche gli autori, c’è una eco dell’American Century di Henry Luce, con un twist logico curioso ma non contradittorio. Nell’articolo del 1941 Luce dice: il mondo sarà americano, anzi è già americano, conosce la lingua, le merci, i modi di pensare americani, parla americano. Dice Hersey: e noi parliamo le lingue del mondo. E forse si tratta della stessa cosa. Il mondo sarà americano perché l’America è il mondo, è una nazione-mondo, come avrebbero detto i primi teorici della società americana come società felicemente e orgogliosamente plurale e multiculturale, non appiattita in un melting pot indifferenziato. 

Lo stesso concetto viene suggerito da William J. Donovan, il fondatore e direttore dell’OSS, l’Office of Strategic Services (l’antenato della CIA). Qui non ho una citazione da Donovan, ma gli autori del libro così ne riassumono il pensiero: “Donovan era convinto che la ricchezza etnica della società statunitense, e in particolare l’esistenza di un grande numero di americani di discendenza europea, avrebbe potuto rappresentare un utile vantaggio per la raccolta di informazioni, il controspionaggio e l’infiltrazione dietro le linee nemiche”.  Naturalmente, sia lo scrittore Hersey che, tanto più, lo spione Bill Donovan sono fonti di elite e non è chiaro quanto le loro convinzioni fossero diffuse. Due cose sembrano tuttavia evidenti. La prima è che esisteva il linguaggio per dirle, quelle convinzioni. La seconda è che di queste persone di così diversa discendenza, di discendenza così ravvicinata da paesi invasi, da paesi nemici, da paesi contro cui si combatteva – in una maniera o nell’altra, anche con sospetti e controlli selettivi, qualche volta con misure repressive (di più con i giapponesi, di meno con i tedeschi, poco con gli italiani) – bene, di queste persone alla fine ci si fidava.

Questa fiducia nella lealtà degli hyphenated Americans più problematici, italiani compresi, fino al punto di affidare loro compiti politico-militari anche molto delicati, è probabilmente un monumento alla sicurezza egemonica degli Stati Uniti nel momento della loro più sicura ascesa ai vertici del potere mondiale. 

Categorie:Uncategorized

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